LA VITA NEI BOSCHI DEL CADORE AGLI INIZI DEL ‘900
LA VITA NEI BOSCHI DEL CADORE AGLI INIZI DEL ‘900
quando un boscaiolo riusciva a lavorare dai 25 ai 30 tronchi al giorno, senza rientrare a casa alla sera, per 6 giorni alla settimana
Selva di Cadore, anni ’20: boscaioli impegnati nell’esbosco sul fondo di un avvallamento naturale. (Foto di Fedele Chizzolin) |
Il
bosco agli occhi della società attuale appare come un patrimonio da
conservare e da tutelare, nonostante gli incendi dolosi e l'assenza
di attività conservative, rimanendo pur sempre un qualcosa di lontano, non
ben definito, con cui non si ha troppa familiarità.
Con
certezza si può contrapporre l’opinione che avevano del bosco i
nostri nonni e bisnonni, consapevoli della basilare
importanza che assumeva il bosco nelle loro attività quotidiane,
tanto che doveva essere salvaguardato ma sopratutto doveva essere
conosciuto, rispettato ed amato.
In
tal senso il bosco veniva distinto e considerato secondo:
- la varietà delle piante, sommariamente il bosco era fatto da abetaia bósko da dàsa, lariceto da déma, faggeta da fòia o fageréito.
- la presenza di norme di salvaguardia e/o divieti particolari: erano le regole che le comunità applicavano allo sfruttamento del bosco. C'erano le vìže, i boschi protetti destinati alla pubblica utilità come la manutenzione di ponti, strade o Chiese. Certe vìže servivano per evitare smottamenti e valanghe, altre erano seràde o vèrte al transito del bestiame. Infine c'erano i bóske de làudo a ridosso degli abitati ed erano utilizzati gratuitamente dai regolieri per il rifabbrico. Particolarmente vincolate erano tutte le piante che crescevano sotto le strade (lato a valle).
- la produttività che veniva distinta in tre classi: la Iª, quella di alta quota, il lén de mónte, era la migliore anche se si ottenevano meno pezzi, tòke; la IIª era quella del legname proveniente da quote medio-basse, mentre la IIIª era data dal legname poco pregiato o rovinato da slavine e frane o destinato alla produzione della carbonella utilizzata dai fabbri veneziani, fàure. Era famosa la località della Poiàta dove s'era creato un centro di produzione.
SCELTA
PIANTE DA TAGLIARE
Per
non snaturare l’ecosistema del bosco e comunque per ricavare allo
stesso tempo il maggior utile possibile, si pianificavano i tagli.
Dopo
aver effettuato la misurazione, pianta per pianta, che avveniva a
monte della pianta, ad una altezza di circa 2 m, utilizzando un
attrezzo simile ad un grosso calibro, il fèr
da mešurà,
la si contrassegnava con un simbolo o marèla
onde evitare ripetizioni o risultati inesatti. Chi misurava detraeva
la corteccia e stimava direttamente l’intera pianta.
Alla
fine del conteggio si poteva già valutare la reale entità del
taglio.
Questa
stima, certamente attendibile, era il frutto di anni d’esperienza
sul campo.
Martellatura di un abete da parte di un forestale, metà anni '90 (Archivio Union Ladina d’Oltreciusa) |
Nella
zona del taglio o lòto
de bósko,
si contrassegnavano tutte le piante da abbattere con un'operazione,
detta la martelàda.
Infatti, alla base delle piante ritenute mature o oltre il diametro
minimo previsto, si asportava un pezzo di corteccia e con uno
speciale martello veniva apposto un segno convenzionale che indicava
l’operatore. Questa incisione rimaneva visibile per molti anni
finché la ceppaia non si era totalmente decomposta. Le piante erano
ulteriormente contrassegnate asportando, ad un’altezza da terra di
circa 1,5 m, due pezzi di corteccia sui lati opposti del tronco.
Si
diceva che le piànte
veňìa
spečàde.
Ciò
permetteva un veloce riconoscimento delle piante da tagliare, dato
che il taglio non sempre seguiva immediatamente la martelàda.I
Segni de casa, il seno de
čaša,
si usavano anche in Tirolo ed in Germania.
Registro dei Segne de Ciasa della Regola di Lorenzago redatto nel 1753 |
IL
MOMENTO DEL TAGLIO
La
conoscenza dei periodi e delle condizioni ambientali necessarie al
taglio erano fattori di importanza basilare e frutto di esperienze
secolari. Il taglio si faceva nel mese di maggio durante la fase
crescente della luna, ossia sul krése
de lùna.
Bisognava
necessariamente anticipare il plenilunio, ossia prima che il legno si
gonfiasse di linfa iniziando la crescita annuale, ñànte
ke le piànte dése n amó
e
ñànte
ke l lén skomínžie
a muóve.
Se
il taglio non era eseguito in primavera si doveva attendere la luna
d’agosto, ke se fàže
la lùna de aósto.
Il
legname tagliato prima di questo periodo si tingeva di sfumature
scure, quasi nere, facendo scadere la qualità. Si diceva che l
se vestìa da prèe.
Fase di scortecciatura anni '90 (archivio Union Ladina d'Oltreciusa) |
LA GIORNATA TIPICA DEL BOSCAIOLO
Negli
anni '50-'60 la giornata lavorativa, nell'area dei lotti
dell'esbosco, iniziava alle otto del mattino, verso le nove e mezza
veniva fatta una piccola pausa, bauf,
di un quarto d’ora per riposare e mangiare un panino con mezzo
bicchiere di vino.
A
mezzogiorno la pausa pranzo durava un’ora, si mangiava quando la
polenta era pronta ed accompagnava il companatico che ognuno si
portava da casa. Finito di mangiare, c’era il tempo per schiacciare
un pisolino all’ombra di un abete. Il lavoro riprendeva nel primo
pomeriggio e continuava fino a sera senza più interruzioni se non
quelle per dissetarsi o fumare una sigaretta. Al termine della
giornata gli attrezzi venivano nascosti sotto le frasche degli alberi
abbattuti e gli uomini scendevano a valle per far ritorno alle loro
case.
La pausa pranzo, San Pietro di Cadore anni ’40. (Collezione privata) |
Quando
il luogo del taglio distava molto dal paese, la squadra dei boscaioli
si tratteneva sul posto, alloggiando in tabiàs o malghe dismesse,
per diversi giorni fino al sabato sera, per poi scendere a valle.
Era
d’obbligo, infatti, trascorrere la domenica con la famiglia e
soprattutto santificare la festa, dì
a mésa. Con le feste
religiose infrasettimanali, i boscaioli scendevano in paese per
andare in processione, n
portesión,
per ripartire quindi il mattino seguente.
I
ripari di fortuna o per la notte si costruivano con le cortecce o
skorže,
ottenute dalla pulitura del tronco. Le cortecce ottenute erano larghe
1-2 metri e lunghe anche 6-7 metri. Venivano selezionate quelle che
non presentavano fori da nodi
Per
l’asportazione si utilizzavano dei rami d’abete appuntiti creati
sul posto, detti skarpiéi.
Con
le piccole piante o con le cime, žimà,
si faceva il telaio di questi ripari, l
kastèl o telèr.
Ai
lati le traverse impedivano che le cortecce s’inarcassero, ke
le skòrže
fáže
pànža.
Per
ultimo si preparava il giaciglio, la dàga,
che si costruiva con dei rami d’abete, ràme
de dàsa.
Questi
rudimentali ripari, terminato il lavoro, rimanevano in loco per
successivi utilizzi, ma spesso il legno utilizzato veniva trasportato
a valle e utilizzato come combustibile.
IL
TAGLIO
Il taglio vero e proprio degli alberi, l
tàio, iniziava con l'abbattere tutte le piante selezionate, taiade
dal pe, e solo in un
secondo momento si iniziava la lavorazione, ovvero se
le laurea.
Anticamente
e fino agli inizi degli anni '50, il taglio delle piante non era
fatto con la sega, bensì con l’ascia, manèra
strénta o manèra
da skavažà.
Dapprima si effettuava un taglio direzionale, incisione che
permetteva di impostare la direzione di caduta, se
i darèa la stràda.
Poi due boscaioli con l’ascia incidevano ritmicamente il tronco
rispettando la direzione di caduta.
Boscaioli di San Pietro al lavoro con il "siegon americano" a due manici |
Solo
dopo la IIª Guerra Mondiale fu introdotto il siegón,
una sega molto grande a due impugnature laterali, che si utilizzava
in coppia. Il taglio delle piante tramite l’uso della sega si
faceva a fasi successive. Man mano che la sega entrava all’interno
del tronco era rallentata fino a bloccarsi, a causa della pressione
esercitata dal peso della pianta, ossia l
siegón
serèa.
Inserendo
uno o più cunei, kói,
si creava lo spazio necessario affinché la sega potesse nuovamente
scorrere, mantenevano e guidavano la direzione inizialmente scelta
per la caduta. Inoltre con una grossa fune detta sóga,
munita di un uncino, fér
da piànte, si
ancorava la parte alta della pianta.
Va
sottolineato il gran rispetto per il bosco che la gente di un tempo
aveva, ricordando che il novellame cresciuto attorno alla pianta da
tagliare, veniva legato con una fune e piegato provvisoriamente da un
lato affinché non venisse distrutto durante la caduta.
Le
piante si tagliavano a circa 25 cm dal terreno. La parte rimanente,
žòka,
manteneva il terreno compatto evitando il crearsi di smottamenti o
bóe.
Si
modellava il terreno attorno a forma di catino, de
na kòpa, per favorire
in tal modo l’azione dell’acqua piovana che, depositandosi,
accelerava la decomposizione.
UN
BOSCAIOLO LAVORAVA CIRCA 25-30 TRONCHI AL GIORNO
Vallada
Agordina: ramponi ad otto “grife”, punte. (Collezione privata)
|
La
taia
era la parte "ottima" della pianta. Era solitamente di
lunghezza pari a 4,20 m. Se la pianta presentava dei difetti si
ricavavano tronchi di varie misure, detti mui,
sempre più corti della taia.
La
taia,
l mul
e la žima
erano utilizzate in segheria.
Nel
caso che l’interno della base della pianta fosse stato marcescente
si tagliavano uno o più pezzi, detti bore,
che si utilizzavano come legna da ardere. Lo stesso žima
era usato come legna da ardere. Anche gli skianti,
le piante in piedi con una parte della cima spezzata dalla neve o dai
fulmini, erano abbattuti e lavorati. Secondo la lunghezza della
pianta si ottenevano dei tronchi con le seguenti misure: tàia
(4,20 m), žapol
(5 m), dišdóto
(6 m), rul
(8 m), čàve
(10 m). Quest’ultima in
particolare
era usata come través
(travi) per la costruzione della rìšina
(scivolo realizzato
con tronchi di varie dimensioni per l’esbosco del legname in zone
impervie e prive di strade).
Le
piante lunghe oltre i 20 m, dette antene,
erano portate a valle intere.
Le
rul e
čàve
erano
misure che si ricavavano solo su commissione, avendo una lavorazione
ed un trasporto particolarmente complicati ed onerosi. Ai tronchi,
con la manèra pilóna,
si asportava la corteccia e si arrotondavano le estremità, le
veñìa
skusàde e pilonàde.
Quest’ultima
operazione facilitava il trasporto ed evitava lo staccarsi dal tronco
di pezzi o sguàrž,
rendendolo meno pregiato.
Manèra e segon, in primo piano due koi,
cunei (Museo del Cìdolo e
del Legname di Perarolo)
|
Tutto
il legname lavorato era radunato in un unico posto per
l’avvallamento. L’operazione era detta dešboskà. Dopo la lavorazione il legname abbattuto era lasciato sul posto fino
ad autunno inoltrato, affinché si stagionasse durante l’estate.
Il
legname s’induriva e si alleggeriva dopo la fase di asciugatura, l
èra pì bon parkè l se serèa e l veñìa
pì lediér e quindi
veniva trasportato con maggiore facilità.
Selva di Cadore, anni ’60: trasporto della legna da ardere con la slitta. (Raccolta Union de i Ladign de Selva) |
Vallada Agordina: slitta da tronchi. (Collezione privata) |
Terminato
il lavoro dei boscaioli era d’uso comune ripulire la zona del
taglio e l’operazione, detta desfratà,
era solitamente fatta dagli stessi proprietari del bosco vista
l’estrema importanza dell'approvvigionamento della legna da ardere.
Si mirava sia a ripulire il bosco dalla ramaglia sia a raccogliere
ogni scarto della lavorazione, infatti nulla andava sprecato. Le
tàpe,
prodotte dalla pilonadùra,
la ramàda,
ossia i rami veri e propri, i krònkui
e le skòrže,
prodotte dalla scorticatura, le bóre
e infine i žimà
erano tutti usati come combustibile.
La
corteccia si toglieva per permettere una buona stagionatura e
conservazione, la
ramàda venia skusàda.
La fràta,
scarto della ramificazione, veniva raccolta in piccoli mucchi,
kogolùže
e lasciata marcire. Se invece il taglio era stato fatto in un prato,
si ammucchiava e si bruciava.
Anche
le tàute,
ossia le ceppaie degli alberi erano sradicate ed usate come legna da
ardere. Spesso la legna era lasciata sul posto, allestendo delle
cataste, tàse,
e durante l’autunno o la stagione invernale portata a valle con le
slitte trainate da animali o a mano..
MISURAZIONE
DEL LEGNAME ABBATTUTO
Prima
di portare a valle il legname, si procedeva alla misurazione, detta
mešurà
le tàe. A tal fine si
usavano, in passato, le kanàule,
dei ferri ad U che ancor oggi si possono ammirare nella sede comunale
di Lozzo. Ce n’erano di diverse misure quali: pìžola,
žìma,
VIII (otàva),
X (dežima),
XII (dódeše),
XV (kuíndeše).
L’unità di misura usata era l’ónža,
corrispondente a 1/12
di piede.
Le
estremità delle kanàule
si appoggiavano n kóda,
ossia sulla parte più stretta del tronco, se passavano oltre,
significava che il tronco apparteneva alla classe inferiore.
Questo
metodo di misurazione fu adottato fino alla fine dell’800, quando
subentrò il cavalletto.
I
dati dei tronchi, man mano che erano misurati, si annotavano su di un
apposito foglio suddiviso in classi diametrali. Quest’ultima e
delicata operazione era detta teñì
tesera ed era
solitamente assegnata ad un uomo accorto e preciso. Il prontuario era
un altro strumento indispensabile a chi si recava sul luogo di
misurazione, da ki ke
dèa su l séño,
che permetteva, conoscendo il diametro del tronco, di ricavarne la
cubatura e di concludere sul posto la vendita del legname.
Contrassegno con il seño de čaša |
Tappe di riconoscimento dei commerciani di legname fatte col manarin |
Spesso
il taglio era eseguito per diversi proprietari e i tronchi abbattuti
venivano contrassegnati con simboli con il fer
da seña.
Detti simboli erano le iniziali del nome, cognome e soprannome del
proprietario, talvolta precedute dal seño
de čaša.
Era attribuito ad ogni regoliere e si incideva, non solo sui tronchi
e sulle piante in piedi, ma in particolare su quelle lungo i confini
delle proprietà.
Si
incideva inoltre sugli arnesi da lavoro e si ricamava sulla
biancheria. Il seño
de komùn era una X,
da cui deriva il verbo nkrošà
le piante, cioè
contrassegnare con una croce le piante di proprietà comunale.
(fine
prima parte)
Da
< Il Bosco e i
Lavori Boschivi, la vita dei boscaioli del Cadore ad inizio '900 >
di DA PRA DANTE detto Falìse,
pubblicato
su Tetto&Pareti in Legno, marzo 2010.
CONTRIBUTI
FOTO: http://www.unionladina.it/sito/documentazione-fotografica-lb
Prossimamente
la seconda parte: "La Fluitazione, I Menadàs e I Zattieri"
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