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Visualizzazione dei post da gennaio, 2018

LA STRAORDINARIA VITA DI UN DOGE SANTO, PIERO ORSEOLO

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Tempo fa, un caro amico che milita nel campo “avverso”, quello dei filo napoleonici (esistono pure le aberrazioni, in natura) ci sfotteva amabilmente dicendo che il loro amato era pure tra i Santi del calendario canonico. C’era un San Napoleone (15 agosto) inventato di sana pianta per compiacere “l’imperatore”. Ora leggo che noi un doge santo ce lo abbiamo per davvero, ed è il doge Pietro Orseolo (976-978). Niente fuffa finta, come i napoleonici. Qui trovate la descrizione della vita e le opere http://www.santiebeati.it/dettaglio/91342 Fu canonizzato il 9 maggio 1731 e le reliquie arrivarono dalla Francia dove era morto in regime di clausura, per essere deposte nella Basilica di San Marco. Pietro Orseolo nacque a Venezia nel 928, da nobile famiglia veneziana. Fu comandante della flotta veneta contro i corsari saraceni, che ormai da secoli costituivano una vera e propria piaga per il mar Mediterraneo. Non accontentandosi di attaccare le navi commerciali, spesso costoro compiv

NAPOLEON... CHE SI NASCONDE COME UN LADRO AL CORRER

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La vera storia della statua dell'I. (Infame o Imperatore a scelta) raccontata da Luigina Pizzolato Peripezie di una statua ‘sconta’. Manzoni  compose in 5 maggio il 21 luglio 1821, di getto, quando la notizia della morte di Napoleone nella remota Sant’Elena si diffuse per l’Europa. Due volte nella polvere, due volte sull’altar, recita Manzoni, nella polvere ancor oggi, finiscono abbattuti i tiranni. Più colossali le statue, più fitto il polverone. sembra a tanti un giocatore di bocce Una élite di ricchi commercianti veneziani nel 1811 aveva commissionato allo scultore Domenico Banti  una statua gigantesca di Napoleone, “in omaggio al fondatore del porto franco”. Una inutile dimostrazione di gratitudine e servilismo, visto che il porto franco a Venezia, limitato alla sola Isola di San Giorgio, non potè mai entrare in funzione. Infatti l’imperatore che lo aveva concesso aveva già dal 1806 ordinato ,in aperta violazione dei trattati internazionali, il blocco continentale

MORA MORA LI VINICIANI, LO SPIRITO ANTIVENETO IN ITALIA

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Di Renzo Fogliata " Mora mora viniciani; mora sti arabiati cani ". Questo era il motto antiveneto dei coalizzati di Cambrai (per gli analfabeti ai quali mi rivolgo, anno 1509). Altri alimentavano la fola che Dante, nel corso di una legazione, non sarebbe riuscito a parlare latino con i senatori veneti perché troppo ignoranti. Nel frattempo, Andrea Dandolo era il miglior amico del Petrarca, poco dopo Ermolao Barbaro fu uno dei più colti umanisti e, ancora dopo, Pietro Bembo optò scelleratamente per il toscano quale lingua ufficiale. La morale è che la mamma dei cretini è costantemente incinta ed ha una vita plurisecolare. Figuriamoci ora se tra gli italiani, terreno fertile in materia, questa mamma non fa furori ! Ricordiamo a questi poveri imbecilli che i veneti immigrarono perché caddero sotto il peggior governo, quello italiano, che si possa immaginare, sfruttatore, colonialista, guerrafondaio, bruciapile, grassatore della povera gente (tassa sul macinato e coscriz

ESISTEVANO I CORAZZIERI NELL'ESERCITO VENETO?

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Si, esistevano, sia pure come corpo di élite e rappresentanza: in questi reparti (sommati eran poche centinaia di uomini), si arruolavano in genere nobili della Terraferma veneta o di altre Nazioni italiane. Nel bel libro di Francesco Favaloro, tante volte citato, abbiamo trovate, riprodotte nei suoi acquerelli, le pittoresce uniformi. Le corazze eran però indossate solo in occasioni cerimoniali particolari, e vi fu una richiesta di "sovrassoldo" per i giorni in cui questi cavalieri erano obbligati a metterle, tanto eran scomode. Ma il progresso tecnologico nell'arte della guerra avrebbe ben presto rese obsolete le loro corazze: lo testimonia tragicamente nel museo di Waterloo una di queste, forata da parte a parte da un colpo di cannone ben centrato. A fine Settecento i corazzieri veneti indossavano braghe di pelle naturale. Pare anche che usassero un tricorno gallonato e non l'elmo crestato che vediamo in uso i corazzieri italiani odierni. Avevano anche adottato i

LUNARDELLI, O Rei do Café era nato Mansuè

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Geremia Lunardelli-Simita n Chiamato Rei do Café (Re del Caffè) non solo per i suoi enormi possedimenti coltivati a caffè negli stati brasiliani di San Paolo, Paraná e Mato Grosso del Sud, oltre che in Goiás ed in Paraguay ma perché affermava che "i Re nascono per l'amore per la terra, amore che viene sempre messo alla prova dal lavoro sui campi". Il tormento che lo afflisse per tutta la sua vita fu l'incapacità dei politici a comprendere i valori dell'agricoltura. Sosteneva che le sedi delle capitali, dei ministeri e dei parlamenti, essendo lontane dalle campagne, non consentono agli uomini di governo, ai funzionari, ai professionisti, agli industriali di comprendere la terra e chi la lavora con amore. Tra i tanti migranti che sbarcarono in Brasile nel 1886, ci sono anche Nicolò e Luigia Lunardelli, giovani sposi contadini, 25 anni lui e 22 lei. In braccio a loro, Geremia, di un anno appena.  Avevano lasciato parenti ed amici a Fossabiùba (frazion

SANTA MARIA DELLA SALUTE E LA PESTE

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Elio Costantini riprende un post di Gigio Zanon 27 Zener 1630 m.v. (1631 par i no autoctoni) Il Patriarca cede alla Repubblica il terreno di proprietà del seminario necessario per costruire il tempio da dedicare alla Madonna affinchè questa protegga Venezia dalla peste (*). La peste fu portata da un ambasciatore del duca di Mantova Carlo I Gonzaga Nevers, che venne internato nel Lazzaretto Vecchio, ma gli bastò entrare in contatto con un falegname per infettare la città, a partire da Campo San Lio. Il 22 ottobre 1630 il voto del patriarca Giovanni Tiepolo: «voto solenne di erigere in questa Città e dedicar una Chiesa alla Vergine Santissima, intitolandola SANTA MARIA DELLA SALUTE, et ch'ogni anno nel giorno che questa Città sarà pubblicata libera dal presente male, Sua Serenità et li Successori Suoi anderanno solennemente col Senato a visitar la medesima Chiesa a perpetua memoria della Pubblica gratitudine di tanto beneficio»(**). Il 26 ottobre in Piazza San Marco il Dog

Di Rudio, il bellunese che combatté con Custer

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IL BELLUNESE CHE COMBATTE' A LITTLE BIGHORN   Chi era l'avventuriero, ex garibaldino, coinvolto nell'attentato a Napoleone III, condannato all'ergastolo alla Cayenna da cui fuggì, che forse ispirò l'autore del romanzo Papillon e che combattè a fianco del generale Custer contro i Sioux?  Carlo Di Rudio - Charles DeRudio Carlo Camillo Di Rudio, anglicizzato in Charles DeRudio (Safforze , B l  26 agosto 1832 – Pasadena, California 1º novembre 1910), è stato un patriota e militare italiano naturalizzato statunitense, noto per avere partecipato al fallito attentato a Napoleone III e per avere combattuto nella battaglia del Little Bighorn. Una vita avventurosa Il conte Carlo Camillo Di Rudio nacque a Belluno in una famiglia di nobili: il padre era il conte Ercole Placido e la madre la contessa Elisabetta de Domini. Detto "Moretto" per i suoi capelli neri corvini, assieme al fratello Achille, fu avviato, non ancora quindicenne, alla carriera milit

DALLA SCHIAVONESCA ALLA SCHIAVONA: A BELLUNO

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Il fornimento detto "a tre vie" della spada di centro, sembra sia opera del celebre spadaro bellunese Andrea Ferara che aveva bottega a Fisterre, lungo il corso dell'Ardo. Anche la caratteristica elsa ad "S" della schiavonesca e la complessa gabbia della schiavona vennero realizzate, elaborando modelli levantini, da spadari bellunesi. A sua volta sembra che la famosa "Katzbalger" lanzichenecca sia di ispirazione bellunese, e potrebbe essere vero, dati i continui rapporti tre gli artigiani tedeschi e veneti. G. Rotasso Da "Le armi nei secoli del Rinascimento" di Gianrodolfo Rotasso in "Saggi di oplologia" edito dagli Armigeri del Piave di Treviso. la bella replica di Del Tin, da me posseduta, in tempi felici Aggiungo una descrizione più dettagliata. Spada a lama larga, per questo detta "palosso" dal termine tedesco che indicava la lama usata dai cacciatori per finire i cinghiali colpiti (pallach). La testa del

LA CAPRETTA ISTRIANA ... CHE FORSE NON ERA UNA CAPRA

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Molto interessante questa dissertazione sulla “capretta” istriana dello slo-veneto Klopotec Izpod Orehov: Circa il bel simbolo della regione istriana, attualmente simbolo della Istatska županija, vorrei proporre questo interessante studio in croato: http://hrcak.srce.hr/file/74881 Si è abituati a considerare essere l’animale raffigurato una capra, ma la cosa non è così scontata. Fu il triestino di tendenze filo-italiane Pietro Kandler a definirlo come capra, in base a delle statuette rinvenute in territorio istriano raffiguranti tale animale. Si vede però chiaramente che le corna non sono assolutamente quelle di una capra, ma molto più simili a quelle di uno stambecco (kozorog in sloveno, divojarac nello studio croato citato). Tra l’Ottocento ed il Novecento la natura dell’animale divenne oggetto di discordia tra il partito liberalnazionale italiano da una parte ed i partiti cattolici croati e sloveni dall’altra. Tempo fa ho trovato un intervento di Europa Veneta che definiv

A TREVISO "ASCARI E SCHIAVONI" UNA MOSTRA CRIMINALE

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Di Dino Raro ASCARI E SCHIAVONI TREVISO Mi sarebbe piaciuto se le potenti forze "politike" del comune di Treviso e le organizzazioni sindacali nonché l'ANPI si fossero dedicati allo studio ed alla conoscenza della storia dell'emigrazione veneta ed italiana, storia di miseria e sacrificio senza eguali. Storia di contadini, operai, proletari, tanto cari agli esponenti di sinistra. Ricordare quelle emigrazione di massa create dallo stato italiano è un dovere, dovrebbe essere un dovere. Come  denunciare l'immigrazione indiscriminata odierna, sempre creata dallo stato Italia contro i propri cittadini è un dovere. Questa mostra che accosta Ascari a Schiavoni è un falso sia storico sia ideologico. Significa non conoscere la storia da chi organizza l'evento, ma dubito che possa essere, e quindi è ancora più grave. Il travisamento della storia e della verità diventa un crimine perché esce proprio dall' università di Venezia. Diventa un crimine perché, se

Junghans dagli orologi alle mine, uno dei nomi storici dell'industria veneziana.

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JUNGHANS , u no dei nomi storici dell'industria veneziana. La prima Fabbrica Italiana d’Orologi sorta alla Giudecca alla fine dell'Ottocento.    N on c'era abitazione o ufficio che non avesse avuto una pendola con il marchio della stella a cinque punte. Nel 1877 i fratelli Herion, in qualità di agenti per l'Italia della tedesca Junghans, fondarono la prima fabbrica italiana d'orologi e congegni di precisione. Agli inizi era un semplice laboratorio di montaggio di elementi importati dall’estero, ma raggiunse ben presto una propria autonomia di produzione grazie all’apertura dello stabilimento nella parte centrale dell’isola della Giudecca, essendo diventata nell’ultimo ventennio dell’Ottocento l’area industriale cittadina con molte fabbriche, tra cui il Molino Stucky, distillerie e birrerie, industrie tessili e manifatturiere, cantieri navali.  Nel 1899 Arthur Junghans, uno dei due eredi del fondatore, entrò a far parte della ditta e