MARIN FALIER, DALA BELA MUGIER, ALTRI LA GODE, LU LA MANTIEN

Il Consejo dei  X assiste all'esecuzione del Dose
PARLIAMO DELLA CONGIURA del Doge Marin Falier. La legenda narra che tramò contro lo Stato per vendicasi della nobiltà che non lo aveva difeso abbastanza contro le calunnie sull'onore dellla bella e giovane moglie, ma la storia fu ben diversa. 

Il suo breve dogado fu molto travagliato. Il 4 novembre 1354 la flotta veneziana nell'Egeo, al comando di Nicolò Pisani, fu letteralmente annientata a Portolongo dai Genovesi, con cui la Repubblica era in guerra. La sconfitta precipitò la città in una fase di forte ristagno economico, di cui il popolo "borghese", formato principalmente da artigiani ed i mercanti si lamentavano continuamente e dei quali il Dose Falier divenne l’interprete ed il fautore di una guerra ad oltranza contro Genova.

Dal 1350 al 1355 Venezia passò infatti un momento estremamente delicato. Non solo la guerra con Genova, ma anche quella precedente con i veronesi e il terribile morbo della peste avevano creato gravi difficoltà economiche, con il commercio che languiva la scarsa circolazione monetaria, il forte aumento del numero dei poveri ed i tassi d'interesse lievitati del 40%.



La congiura.


Le motivazioni che potrebbero aver condotto Marin Falier alla cospirazione derivarono forse dall’analisi politica di una Penisola dove i deboli e rissosi governi comunali venivano, uno dopo l’altro, sostituiti dalle autoritarie Signorie. Comunque sia, la tradizione vuole che la spinta finale ad agire sia stata propiziata da motivazioni personali.

Durante una festa in palazzo Ducale, i giovani Michele Steno (futuro Dose), Pietro Bollani, RizzardoMarioni, Moretto Zorzi, Micaletto da Molin e Maffeo Morosini, vergarono sui muri alcune scritte offensive nei confronti della Dogaressa e del nipote del Dose. Di questi insulti, due in particolare vengono ricordati dai cronisti: "Marin Falier, da la bea mugier, altri la galde lu la mantien" e “Beco Marin Falier della bela moier, la mogie del doxe Falier, se fa foter par so piaser”. Quale immediata conseguenza, il 10 novembre 1354, sollecitata dagli Avogadori de Comun, la Quarantia condannò lo Steno a dieci giorni di carcere, il Bollani e il Marioni ad una settimana. Pene invero miti ma era anche pur vero che nel passato certe “ragazzate” non avevano mai visto punizioni più severe. Un uomo di Stato esperto ed acuto come il Falier non poteva non rendersene conto, tanto che la sua sicurezza nel non essere beco (cornuto) fu confermata dal fatto che designò la moglie esecutrice del suo testamento.

L’episodio non gli fece certo piacere ma il movente ebbe evidentemente diversa natura.

Uomo fortemente ambizioso, probabilmente non soddisfatto di essere arrivato al dogado, cospirò per diventare “Signor a bacchetta” ed assicurare così il dominio alla sua famiglia che, dopo di lui, poteva continuare con il nipote Fantino. Di antichissima e nobile famiglia, di grandi ricchezze, conte e signore di Valmareno, cavaliere dell’Impero, amico di principi e signori, con fama di virtù, di sapienza e di valore guerriero, con vaste relazioni intrattenute con borghesi e popolani, grande seguito fra la gente di mare e, infine, con l’autorità di Dose, egli si convinse al gran passo.

Riconobbe subito che per poter attuare con qualche successo un colpo di Stato contro la nobiltà, aveva da rivolgersi a quei borghesi che, finanziariamente erano assai potenti ma ugualmente destinati a rimanere esclusi dalla politica. Pochi e selezionati i capi della cospirazione, oltre a lui stesso, Bertuccio Isarello, proprietario di navi, il suocero di questi, Filippo Calendario, tagiapiera e proprietario di barconi, ed infine un certo Vendrame, ricchissimo pellicciaio.


Il piano.


La data dell'insurrezione fu stabilita per il 15 aprile 1355. Il disegno, semplice e quanto mai cruento, prevedeva di irrompere in piazza San Marco, occupare il palazzo Ducale e qui uccidere tutti i membri dei vari Consigli, quindi girare per le case ed eliminare il resto dei nobilomeni assieme ai loro figli. Compiuta la strage, Marin Falier si sarebbe proclamato "Signore di Venezia".



Il fallimento.



Vendrame, incautamente o forse pensando che ormai i giochi sono fatti, si confida con un amico, il nobilomo Nicolò Lion, al quale infatti anticipa che nella notte ci sarà a Venezia una “gran novità”: è in atto una sommossa per abbattere il Governo repubblicano. Il Lion non perde tempo e corre subito a riferire il nefasto progetto al Dose, Marin Faliero il quale, restando impassibile, minimizza la faccenda in “ciacole” senza fondamento (chiacchiere), peraltro già udite anche dai Consiglieri Ducali.

Il Lion però non riesce a tranquillizzarsi e chiede al Dose la bontà di convocare il Minor Consejo e dopo alcune titubanze, il Dose acconsente. Intanto però si sparge la voce e molti nobilomeni che si trovano a palazzo accorrono per saperne di più. Ora si dubita della parola del Lion il quale chiede allora che Vendrame venga convocato e questi, trovato e messo alle strette, confessa i nomi del principali congiurati. Nel frattempo arriva a palazzo Giacomo Contarini accompagnato dal nipote Giovanni, che confermano come vere le dichiarazioni del Vendrame, avute da un loro confidente, tale Marco Negro. Anche questo viene convocato ed interrogato e, nell’elenco dei congiurati di sua conoscenza, egli fa anche il nome del Dose.

Grande è lo sgomento fra i nobilomeni. La parola del Negro non viene giudicata bastante, è in gioco l’onore della Repubblica, ci vuole la certezza. Viene perciò tratto in arresto Filippo Calendario il quale, sotto la minaccia della tortura, confessa e conferma l’esistenza della congiura ed i nomi dei congiurati, compreso quello del Dose.

Sul far della sera, tutta la città è in allarme. Per la dignità della carica ricoperta, il Dose viene posto agli arresti domiciliari, mentre tutti gli altri congiurati sui quali si riesce a por mano vengono incarcerati. Nel frattempo un gran numero di nobilomeni “lealisti” accompagnati dai rispettivi seguiti armati, si apprestano a passare la notte presidiando piazza San Marco. Infine a Marco Corner, Capitan General da Mar, è affidato il comando di un flottiglia di barche armate affinché la laguna sia tenuta sotto stretto controllo.



La repressione.


Il giorno dopo, il 16 aprile, il Consejo dei Diese si riunisce e, data la gravità delle decisioni che si dovranno assumere, gli viene tosto affiancata una Zonta composta da 20 nobilomeni.

Bertuccio Isarello e Filippo Calendario sono impiccati il giorno stesso alle colonne rosse della loggia di palazzo Ducale, altri nove congiurati seguono subito dopo la loro stessa sorte.

Venerdì 17 aprile, non presente, viene giudicato il Dose Marin Falier. Egli è riconosciuto colpevole di alto tradimento e condannato all’unanimità dei voti alla decapitazione. La sentenza gli viene comunicata mentr’egli attende nei suoi appartamenti, da Giovanni Gradenigo che gli intima “dami quela bareta”, spogliandolo così delle insegne dogali. La sentenza viene compiuta al tramonto in Palazzo Ducale, a porte chiuse, e si vuole sia eseguita nello punto stesso della grande scalinata dove, poco prima di cingere la corona ducale, Marin Falier aveva prestato il giuramento di osservare la "promissione ducale".

Dopo il suono della campana, al popolo, in attesa riunito in Piazzetta, viene mostrato lo spadone ancora insanguinato del boia e una voce grida: "Vardé tuti! La xè stada fata giustixia de'l traditor!".

Il suo corpo rimarrà esposto per un giorno nella sala della magistratura del Piovego, deposto su una stuoia e con la testa mozza ai piedi. La sera del 18 aprile, il cadavere sarà caricato a bordo di una gondola e silenziosamente accompagnato alla sepoltura, un cassone di pietra collocato all’interno della Cappella della Madona de la Paxe, dunque non all’interno della chiesa di San Zanipolo. Caduta la Repubblica, nei primi anni dell’Ottocento il cassone, svuotato dei resti e rimosso, fu utilizzato per qualche tempo come serbatoio dell'acqua per l'ospedale civile, trovando alfine la sua collocazione, completamente privo di stemmi ed iscrizioni, nella loggia esterna dell'antica sede del museo Correr, ossia il Fontego dei Turchi.

Il Petrarca in una lettera espresse la tragica emozione che questo evento produsse in tutta Italia e vi vide con chiarezza una inconfutabile lezione per i futuri Dosi, da cui essi impareranno che sono «le guide e non i padroni dello Stato. Che dico le guide? Unicamente gli onorati servitori della Repubblica».

Fonte: Veneziamuseo.it

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