COME MAGNAVA I VENETI cosa si metteva in tavola
COSA SI METTEVA IN TAVOLA
Riso, polenta, baccalà e fagioli: i quattro pilastri della cucina veneta.
Ingredienti poveri che hanno superato confini dei luoghi di nascita per diventare patrimonio della Serenissima.
Sono arrivate in laguna pure le castagne cadorine, il radicchio trevigiano, il bacalà alla vicentina, i canederli trentini e i gnocchi s-ciavoni.
Sono arrivate in laguna pure le castagne cadorine, il radicchio trevigiano, il bacalà alla vicentina, i canederli trentini e i gnocchi s-ciavoni.
La cucina
veneziana, quella del popolo, si è sempre caratterizzata per la povertà degli
ingredienti ma che diventa raffinata per le tavole dei nobili quando
sapientemente li combina con spezie come pepe, cannella, chiodi di garofano,
noce moscata, uvetta passa, pinoli, zenzero.
Mantenendo i
legami gastronomici originali con i territori conquistati o che avevano giurato
fedeltà alla Serenissima diffonde le loro abitudini alimentari, in questo modo Venezia
salvaguarda tradizioni secolari senza creare scontri tra campanili. I piatti
della cucina dell’entroterra realizzati con quello che offrivano i campi o gli
orti salgono, grazie a lei, agli onori delle cucine internazionali.
Il fegato
con le cipolle e le sarde con l'uvetta (in saòr) sono due ricette simbolo
del Veneto.
È la terra
del baccalà mantecato o di una minestra che nel tempo diventa un risotto
all'onda il risi e bisi e della pasta e fagioli preparata con i fagioli
di Lamòn. La cucina veneta è fatta anche di ricette ricche e sostanziose utilizzando
la polenta, le salsicce, il pesce e la cacciagione proveniente dalle valli e dalle barene.
Tra tutte le
verdure spiccano il radicchio di Treviso, di Castelfranco
e di Chioggia grazie al loro sapore ma dal basso contenuto calorico che
venivano arricchiti, per renderli più sostanziosi, con la pancetta oppure pastellati
e fritti nello strutto. Oltre alle
varietà di radicchio, i carciofi (castraure) coltivati nelle isole della laguna, gli
asparagi di Bassano, i piselli, i fagioli di Lamòn, i funghi del Montello e i bruscàndoi
tra le erbe spontanee.
L’uso del
riso nella cucina veneta avviene dopo i contatti avuti dai mercanti con
l’oriente che, prima lo affiancano ai cereali conosciuti sin dai tempi dei
romani (frumento, segale, farro, avena, orzo e miglio) e poi, lo fanno diventare il
re della cucina veneta.
I vari
ricettari veneti annoverano un numero impressionante di ricette per realizzare primi
piatti a base di riso, dai risotti all’onda al riso in brodo (o brodoso).
Uno dei più
vecchi ricettari dei tempi moderni scritto in veneto ha ben 45 ricette in cui
il riso viene utilizzato con ogni tipo di verdura (dal finocchio ai
bruscandoli, dal radicchio di campo alle patate), di carne e di pesce.
Alcuni esempi di minestre della vera cucina veneziana con il riso: Risi in cavroman (con carne di montone), Riso a la bechéra (fatto con le secole), Risi co la suca baruca (con la zucca chioggiotta), Risi in pevarada, Risi co'l late, Risi co le tripe e la Minestra de pantasso (specialità originaria della campagna padovana).
Il risi e bisi, senza entrare nel merito della preparazione che
diventa soggettiva da famiglia a famiglia secondo le tradizioni, dovrebbe essere secondo le origini una minestra fissa (detto risotto
lento nelle altre regioni), un po' più lento del risotto tradizionale all'onda, una via di mezzo con una
minestra.
La tradizione, condita da leggenda, vorrebbe che l’origine sia vicentina,
dove il riso fosse il vialone nano di Grumolo delle Abbadesse, mentre i
piselli, bisi, fossero quelli
coltivati ai piedi dei colli Berici. Anche se da qualche anno la frazione di
Peseggia nel Comune di Scorzè, dopo aver depositato la ricetta originale alla
Camera di Commercio di Venezia, ne reclama la paternità essendo da tempo
immemorabile un territorio vocato alla produzione di bisi che si caratterizzano per il loro sapore dolce e dalla buccia
tenera da essere utilizzata, una volta lessata e passata al setaccio, assieme
al brodo di carne (gallina).
Certe sottili distinzioni in cucina esistono solo nel Veneto, come per le luganeghe,
prodotte in due versioni: magre e grasse. Le prime da cucinare solo alla griglia mentre le
seconde destinate alle minestre e risotti.
Riso, polenta, baccalà e fagioli: i quattro elementi che
caratterizzano i principali piatti della tradizione veneta.
Annibale Carracci, il mangiafagioli - 1584/1585 |
Primi piatti.
La ricetta più famosa è senz’altro risi e bisi, poi è molto diffuso il risotto agli sparasi¸ cioè agli asparagi. Non vanno dimenticati il risoto de gò, la pasta e fasoi con i fagioli di Lamòn, i bigoi in salsa (di derivazione ebraica), sopa coada, i gnochi la cui patria storica sarebbe Verona dopo una lunga diatriba con Padova, Treviso e Venezia.
La ricetta più famosa è senz’altro risi e bisi, poi è molto diffuso il risotto agli sparasi¸ cioè agli asparagi. Non vanno dimenticati il risoto de gò, la pasta e fasoi con i fagioli di Lamòn, i bigoi in salsa (di derivazione ebraica), sopa coada, i gnochi la cui patria storica sarebbe Verona dopo una lunga diatriba con Padova, Treviso e Venezia.
Un esempio dell'integrazione (a tavola) tra le etnie presenti a Venezia, sono i gnochi de pan e luganega, versione di una antica ricetta s-ciavona (dove non usavano luganeghe) che ricordano pure i canederli trentini.
L’unica pasta è rappresentata dai bigoi, preparazione storicamente legata all’operato dell’uomo, più
che della massaia, per la forza fisica necessaria nella preparazione. I bigoli sono una
sorta di grossi spaghetti realizzati grazie ad un torchio azionato a mano, dalla
superficie particolarmente ruvida ed adatta a trattenere i sughi. Il termine bigolo con molta probabilità deriverebbe
dal termine dialettale bigat (bruco),
per la caratteristica del bigolo di fuoruscire dal torchio-bigolaro, strumento
che sarebbe stato importato dalla Cina grazie a Marco Polo.
Secondi
piatti.
Dalle sarde in saòr al figà àea venessiana, cioè il fegato alla veneziana. Il baccalà mantecato alla vicentina con polenta, la poenta e schie, il bisato in umido o rosto o fritto, la pastissada de manzo, la tripa.
Dalle sarde in saòr al figà àea venessiana, cioè il fegato alla veneziana. Il baccalà mantecato alla vicentina con polenta, la poenta e schie, il bisato in umido o rosto o fritto, la pastissada de manzo, la tripa.
Dolci.
Pensati prevalentamente come “biscotti secchi” da intingerli nel vino dolce liquoroso e per poterli portare con sé anche duranti i viaggi per mare e per terra. Ogni provincia ha il suo dolce legato alle ricorrenze religiose le cui caratteristiche sono fortemente legate ai prodotti della terra e a tutto ciò che era disponibile nelle diverse stagioni come la polenta. A questa veniva aggiunto ciò che si trovava in dispensa: dal pane raffermo alla frutta secca, dal sangue del maiale appena ucciso nelle fredde giornate invernali alle noci.
Pensati prevalentamente come “biscotti secchi” da intingerli nel vino dolce liquoroso e per poterli portare con sé anche duranti i viaggi per mare e per terra. Ogni provincia ha il suo dolce legato alle ricorrenze religiose le cui caratteristiche sono fortemente legate ai prodotti della terra e a tutto ciò che era disponibile nelle diverse stagioni come la polenta. A questa veniva aggiunto ciò che si trovava in dispensa: dal pane raffermo alla frutta secca, dal sangue del maiale appena ucciso nelle fredde giornate invernali alle noci.
Nati in laguna: i baicoli, gli zaeti, i bussolai,
i esse,
la torta
nicolotta (realizzata riciclando il pane raffermo, prende il nome dalla
Parrocchia di San Nicolò dei Mendicoli [mendicanti]), i Pevarini da intingere nell’ombra de
vin dei bacari.
Nati
invece in terraferma:
la fregolotta
trevigiana
e la sbrissolona
(origine mantovana o veronese?), i pandòli padovani, i Storti
del Dolo, le veronesi pastafrolle de Santa Lussia, la pagnotta del
doge [prodotto in origine
con
farina, miele, fichi, burro, uova, noci ed inserito nel menù dei banchetti del doge Valier, quando soggiornò nel comune
di Villadose (RO) e a questi è legato il suo nome], la pinsa [dolce casalingo
fatto con pane
raffermo, latte, zucchero, uova, noci, uva passa, mele e semi di
finocchio].
CURIOSTA’: Solitamente
la pinsa veniva consumata
durante le feste natalizie e dell'Epifania abbinata al vin brulé caldo o al fragolino,
specialmente in occasione dei falò d’inizio anno (le pìroe-paroe o
panaìni, panevìni, pignarûl, vècie, casere, foghére).
Con la diffusione del mais, mescolato alla farina
00, diventa l’ingrediente base che sostituisce il pane raffermo. La pinsa
lievitata è prodotta prevalentemente nel territorio trevigiano della sinistra
Piave e nelle zone limitrofe a Vittorio Veneto e Conegliano. Quella non
lievitata è più diffusa a Treviso e nelle zone della destra Piave.
Il mandorlato, nato a Cologna Veneta
attorno al 1840, quando uno speziale ebbe la felice intuizione di amalgamare il
miele con albume d'uovo, zucchero e mandorle sbucciate, oltre ad un lento e
laborioso procedimento che durava e dura ancor oggi più di nove ore.
Un altro dolce molto diffuso fino alla metà del ‘900
venduto nei giorni di mercato o alle sagre paesane, sono gli spiedini Golosessi:
in un bastoncino di legno vengono infilzati uno dopo l’altro fichi secchi,
noci, albicocche e prugne denocciolate per poi essere immersi nello zucchero
caramellato. Questo particolare dessert sarebbe arrivato dalla Cina, ma non ci
sono dati certi che lo confermano, anche se in quel paese c’è l’abitudine di
consumare un dolce molto simile.
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