I FANTI ITALIANI CHI ERANO E COME LA PENSAVANO NELLA GRANDE GUERRA.

Incombono le celebrazioni del 4 novembre e ai pennacchi e alle trombette dei miei ex colleghi bersaglieri, alle lugubri cerimonie all'altare della Patria (quella di chi comanda) opponiamo la nostra resistenza attiva (resistenza veneta), pubblicando un brano del grande Bruno Pederoda (e altri), che descrive in maniera perfetta quanto annunciato nel titolo. Lo stimolo mi è venuto leggendo l'ultimo post di Enzo Trentin http://www.lindipendenzanuova.com/1917-caporetto-2017-tutto-come-allora/ il pezzo è preso da lì, parte di un articolo molto ampio. 

Il soldato italiano si sentiva soprattutto solo, emarginato da un Paese che continuava a vivere come se la guerra non ci fosse, trattato altezzosamente dalla maggioranza degli ufficiali, guardato con diffidenza o con ostilità dagli abitanti delle “terre liberate” incapace di capire il perché di una guerra combattuta per conquistare una terra che economicamente ai suoi occhi non valeva niente e i cui toponimi non avevano nulla da spartire con la lingua italiana. Dirgli che stava combattendo per la Patria era offenderlo nell’intelligenza o, quanto meno, dare l’impressione di voler prenderlo in giro. A parte il fatto che non gli riusciva comunque di sentirsi in patria oltre l’orizzonte abbracciato dalla cima del suo campanile, il termine “Patria” gli suonava falso, coniato apposta per ingannarlo, sfruttarlo, sacrificarlo. La società italiana si divideva per lui in “rimasti” e “partiti”, i primi impegnati a far soldi a palate e a spassarsela, i secondi divisi a loro volta in “imboscati” e “combattenti”; i primi raccomandati di ferro, i secondi – come lui – poveri-cristi soltanto.
Stando ad un certo modo di ragionare; in Italia la Patria appartiene da sempre ai furbi che ci campano sopra, mentre a servirla, a nutrirla, a renderle l’omaggio dei sacrifici di circostanza o di rigore ci sono soltanto gli indottrinati, la massa dei “sì, sior paron”, che con indosso la divisa militare diventa sbrigativamente massa dei “signorsì”
Kaberlaba, Asiago
Non va dimenticato che, se il primo conflitto mondiale fu per tutti gli eserciti in lotta una “sporca guerra”, per il combattente italiano lo fu forse doppiamente, trattandosi – nel caso suo – di una guerra decisa da pochissimi (e per giunta male illuminati), sostenuta sulle piazze da una minoranza sovreccitata e delirante, aborrita dalla quasi totalità della popolazione.
“Una vasta proporzione della popolazione urbana, nelle città industriali del Nord, fu esentata dal servizio militare. Per di più, gli operai addetti all’industria di guerra erano ben pagati, avevano buone case ed erano di solito socialisti, cioè infidi. Così finì che le unità di fanteria attive risultarono composte soprattutto di contadini meridionali. Gli elementi del proletariato urbano che finivano sotto le armi tendevano a farsi destinare alle unità di retrovia dell’artiglieria o del genio, dove, sapendo leggere e scrivere, ed essendo ‘intelligenti’ potevano essere meglio utilizzati.”(1)

“La guerra la fanno i contadini” era diventata voce corrente. In effetti, “circa la metà dell’esercito fu composta da contadini. (…) Su un totale di 5 milioni e 750 mila combattenti complessivamente richiamati durante l’intero conflitto, ben 2 milioni e 600 mila furono per l’appunto contadini. Quasi tutti appartenevano alla fanteria, la più sacrificata di tutte le armi, destinata da sola a subire il 95% delle perdite. Al principio della guerra fu possibile trovare tra i fanti anche degli operai, degli studenti, degli impiegati, ma quasi subito gli uffici, i comandi e le diverse specialità dell’esercito prelevarono dai reggimenti di linea fin l’ultimo specialista, del ferro, dell’ago, della lesina, della calligrafia. (…) La classe più contraria alla guerra offrì alla patria il maggior contributo di sangue”.(2)
Guerra decisa per il solo fatto che la stavano facendo da un pezzo gli altri, e dunque non si poteva rimanere più a lungo alla finestra; decisione cementata dalla persuasione di poter così creare, finalmente, l’amalgama tra gli italiani e dall’opportunità di poter spegnere d’un tratto gli scontri e i disordini sociali che affliggevano il Paese. Era la tesi dei nazionalisti, diventerà la tesi del fascismo.
Ma la politica è realtà, non azzarda l’avvenire di una nazione su un sogno, su un desiderio di rinvigorimento.
Bruno Pederoda: «Tra macerie e miserie di una regione sacrificata – Veneto 1916-1924» © Piazza Editore – Silea (TV)

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