1917. I VENETI A MANGIAR ERBA PER VOLERE ITALIANO
IL COMANDO austriaco nel centro storico di Feltre dove ancora si vedono le scritte indicative in nero |
L'amico Carmelo Ferrante ci manda questo sconvolgente contributo in cui scopriamo che l'Italia rifiutò di mandar soccorsi nella Venezia di terra invasa per una precisa strategia di guerra.
«Perché mai dovremmo dare al nemico l‘opportunità di disfarsi di cosí tante bocche inutili da sfamare?»
All'indomani della Disfatta di Caporetto, di cui oggi corre il centenario, la mortalità nelle zone occupate dagli austro-ungarici del Veneto (Veneto e Friuli, secondo la geografia attuale) salí dal 1,71% degli anni precedenti il conflitto al 4,49%.
Gli appelli da parte dei comitati e delle associazioni dei profughi, le suppliche dei vescovi, le offerte di mediazione della Croce Rossa, del Vaticano e della Svizzera perché si facessero pervenire gli aiuti nei territori occupati, si infransero contro l’opposizione, non del governo austriaco, ma del governo italiano: l’invio di rifornimenti alimentari avrebbe potuto minare lo spirito di resistenza o si sarebbe risolto in un vantaggio per il nemico. Nemmeno la successiva proposta di trasferire almeno i bambini delle terre invase in Italia o in Svizzera, avanzata già nel dicembre 1917, trovò accoglienza presso il governo. Come affermò Sidney Sonnino: con un tale provvedimento si sarebbe offerto al nemico l’opportunità di disfarsi di tante bocche inutili da sfamare.
Benché in Italia l’occupazione si sia protratta per un periodo più breve rispetto ad altri paesi, i tassi di mortalità e di morbilità tra la popolazione furono molto elevati.
Sull’occupazione austro-tedesca del Veneto (Veneto e Friuli, secondo la geografia attuale) dopo la sconfitta di Caporetto non disponiamo di studi d’insieme. Le ragioni di questa dimenticanza storiografica vanno fatte risalire alla fuga di gran parte della classe dirigente, un episodio scabroso, una “diserzione civile” da dimenticare. Punti di riferimento importanti sono tuttora gli studi di Gustavo Corni.
Nella primavera del 1918 – secondo i dati ufficiali – la disponibilità pro capite di farina si ridusse a 100 grammi; in alcuni comuni le razioni medie giornaliere calarono a 15-17 grammi.
Punti di riferimento importanti sono tuttora gli studi di Gustavo Corni.
Nella primavera del 1918 – secondo i dati ufficiali – la disponibilità pro capite di farina si ridusse a 100 grammi; in alcuni comuni le razioni medie giornaliere calarono a 15-17 grammi.
Nei mesi che precedettero il raccolto 1918 si può dire che la popolazione visse solo di ortaggi, di erbe selvatiche, di foglie d’alberi, di farine ricavate dai gusci secchi dei fagioli e dai torsi delle pannocchie di granoturco.
A soffrire di più della carestia furono i bambini e gli anziani, come testimoniarono numerosi parroci e medici di fronte alla Commissione d’inchiesta. Per i bambini e i vecchi – si legge nella Relazione dedicata alle conseguenze dell’occupazione – non ci fu “alcun riguardo speciale”, né nelle distribuzioni alimentari né nell’assistenza. Toccò alle donne provvedere alla sopravvivenza, nascondendo cibo e animali, spigolando, rubando. Ricorda Regina Tittonel, allora una bambina di 8 anni: «Non c’era più niente da mangiare, tutto quello che avevamo era stato distrutto, mangiato e bevuto dai tedeschi appena arrivati. Le donne andavano a rubare sui campi, giù, fino a Motta di Livenza; a rubare pannocchie col sacco, a piedi. A volte venivano prese dai tedeschi, poárete! e gli portavano via la biàva e tút (il granturco e tutto). Altre volte riuscivano a portare a casa un po’ di biàva. Mio nonno Antonio [...] è morto di fame, a 72 anni.»
Il raccolto del frumento nell’estate del 1918 attenuò solo temporaneamente le sofferenze della popolazione (a cui fu assegnato meno di un quarto del prodotto della mietitura) e già a partire dal mese di settembre l’incubo della carestia tornò ad abbattersi sui territori occupati.
I casi di morte nel periodo dell’occupazione – secondo i calcoli di Giorgio Mortara sulla base dei dati forniti dalla Commissione – furono 43.562, 26.756 in più rispetto alla media degli anni immediatamente precedenti al conflitto. Se, infatti, nel periodo 1912-1914 la media annua della mortalità era stata del 17,12 per 1.000, nell’anno dell’occupazione si elevò al 44,9 per mille, un valore che superava di molto quello relativo alla mortalità riscontrata nel resto del paese nello stesso periodo (28 per mille).
Era indubbio, a parere della Commissione, che la causa più importante di una tale mortalità doveva essere attribuita all’ “affamamento della popolazione” e valutava i decessi per denutrizione in 9.797. Un dato incerto e incompleto, secondo Giorgio Mortara, che nel 1925 così lo commentava: «Se si comprendono i casi in cui la fame fu concausa della morte, quel numero è inferiore al vero; poiché probabilmente almeno la metà delle morti accertate ha avuto per causa principale od accessoria la denutrizione.»
Da: «L’arma della fame» di Bruna Bianchi.
se ricordo bene pure Stalin usò mezzucci simili per fiaccare gli ucraini.
RispondiEliminamilioni di morti perfini superiori.