L'USO E IL CONTROLLO DELLE ARMI DA FUOCO "CO S. MARCO COMANDAVA"
L’arma da fuoco, “arma malefica sopra tutte” (definizione della Chiesa al suo apparire) procurò con la sua comparsa la necessità da parte di ogni stato, compresa la nostra Repubblica, di controllarne l’uso e la sua diffusione tra la popolazione. Erano tempi molto diversi dai nostri, per certi aspetti molto più pericolosi da vivere per i veneti di allora rispetto agli attuali. Nel 1553, il Podestà di Brescia, Cattarin Zen, scriveva nella sua relazione che “ogni persona disponeva di archibugi e quelli di Gardon (Val Trompia, guarda caso!) fra gli altri non si contentino di uno, ma fino le femine ne portano doi, uno in mano, l’altro ne la cintura da roda…” e però, anche se egli aveva largheggiato nei permessi di portare armi (io son stato largo nel dar le arme, donde nella città e nel territorio ho trovato nel mio reggimento da 15 mesi e mezo (che) non son stati morti salvo 62,diece in città e 52 de fora).
Possiamo quindi immaginare quale fosse il numero di omicidi in tutto lo stato, se un Podestà vantava come situazione pacifica nel territorio di Brescia, 62 morti ammazzati. Una sequela tale di delitti, che costrinse i nostri saggi governanti, dapprima a limitare il porto d’arma lunga e corta, poi a revocare tutte le licenze concesse per riservare al governo centrale veneziano il diritto del rilascio (1579). Questo rilascio veniva effettuato su “supplica” del cittadino di allora.
Già nel 1533, constatando che gran parte degli omicidi venivano commessi “con archibugi e schioppi dei quali difficilmente si può guardarsi”, il Consiglio dei X comminava la pena di morte e la confisca dei beni, senza riguardo alcuno per il rango dell’omcida. Scrive a questo proposito E. Rubini, nella sua opera “Giustizia Veneta”: < Giovanbattista Pesaro aveva tentato di affrettare al fine dei giorni del ricco suocero Carlo Zane. Per due volte gli scarica addosso l’archibugio in appostamenti notturni, davanti al Palazzo San Stin e sotto il Ponte di San Boldo, ma il prestantissimo senatore smonta sano e salvo dalla sua gondola, con la “vesta” sforacchiata. Per tali colpe l’audace rampollo finisce appeso con l’arma del delitto ai piedi, in forza della sentenza datata 9 febbraio 1564 >.
Non solo era punito il “porto” non autorizzato, ma anche la detenzione: nel 1561 si irrorano 5 anni di interdizione dai pubblici uffici al nobile che detenga in casa sciopi, archibugi e balestrine e gli stessi servitori ne saranno corresponsabili. Tanto che il governo veneto ne incoraggerà la delazione: “E li Famegli, e Servitori, che sapessero dei Padroni loro havere de’ predetti Archibuxi e non avenniranno amanifestarli immediate…incorreranno nelle medesime pene…mà venendo ad accusarli, saranno tenuti secreti e guadagneranno Lire seicento”.
Si distingueva poi, in sede di commistione delle pene per porto abusivo, se l’arma da fuoco fosse corta, quindi occultabile, o lunga, essendo molto più grave il porto occulto che non quello visibile (pena di morte per il primo, pene variabili a seconda delle leggi locali per il secondo). Uguale distinzione si ebbe per il porto dello stiletto (corto pugnale inizialmente in uso agli artiglieri per forare il cartoccio della carica di cannone) e della balestrino, anche essa facilmente occultabile sotto il mantello, rispetto a quello della spada, che era invece tollerato, come arma “nobile” da difesa.
Tanto la nostra Repubblica amava l’ideale di una società libera e pacifica, che vietò persino il porto delle armi corte al proprio esercito, quando passava in un centro abitato, il reparto a cavallo che aveva i dotazione l’Archibugio lungo da Ruoda, o Azzalino era tenuto a smontare il meccanismo di sparo. Se tali reparti erano autorizzati a portare le armi, attraversando la città o il castello, non potevano smontare dalla cavalcatura.
Solo nella prima metà del settecento sembra attenuarsi l’emergenza sulle armi da fuoco, e viene ridotta addirittura la tariffa per il rilascio della licenza per il porto. Le crisi, che erano diventate delle vere emergenze per quanto riguarda la criminalità, si erano susseguite nei secoli precedenti per lo scoppio di pestilenze o per altri fattori in controllabili. Ad esse Venezia aveva saputo rispondere facendosi guidare dalla sua millenaria saggezza.
Per finire: un cenno alle milizie territoriali, composte da bravi contadini che vedevano in San Marco il loro stato, fin dai tempi della guerra di Cambray. Queste milizie, con leva territoriale obbligatoria, venivano addestrate al tiro al bersaglio e alle manovre un paio di volte l’anno; esse avevano il diritto di detenere l’arma in casa (lo schioppo in dotazione), ma non la polvere e le ralative munzioni, anche se non era difficile procurarsele. Evidentemente per lo Stato veneto, questo costituiva un rischio minimo, data la fedeltà proverbiale dei suoi sudditi.
Bibliografia
L’organizzazione militare di Venezia nel 500 di Sir J. R. Hale
Giustizia veneta di Edoardo Rubini
Società e Giustizia nella repubblica veneta (sec.XV-XVIII) a cura di Gaetano Cozzi.
Non solo era punito il “porto” non autorizzato, ma anche la detenzione: nel 1561 si irrorano 5 anni di interdizione dai pubblici uffici al nobile che detenga in casa sciopi, archibugi e balestrine e gli stessi servitori ne saranno corresponsabili. Tanto che il governo veneto ne incoraggerà la delazione: “E li Famegli, e Servitori, che sapessero dei Padroni loro havere de’ predetti Archibuxi e non avenniranno amanifestarli immediate…incorreranno nelle medesime pene…mà venendo ad accusarli, saranno tenuti secreti e guadagneranno Lire seicento”.
Si distingueva poi, in sede di commistione delle pene per porto abusivo, se l’arma da fuoco fosse corta, quindi occultabile, o lunga, essendo molto più grave il porto occulto che non quello visibile (pena di morte per il primo, pene variabili a seconda delle leggi locali per il secondo). Uguale distinzione si ebbe per il porto dello stiletto (corto pugnale inizialmente in uso agli artiglieri per forare il cartoccio della carica di cannone) e della balestrino, anche essa facilmente occultabile sotto il mantello, rispetto a quello della spada, che era invece tollerato, come arma “nobile” da difesa.
Tanto la nostra Repubblica amava l’ideale di una società libera e pacifica, che vietò persino il porto delle armi corte al proprio esercito, quando passava in un centro abitato, il reparto a cavallo che aveva i dotazione l’Archibugio lungo da Ruoda, o Azzalino era tenuto a smontare il meccanismo di sparo. Se tali reparti erano autorizzati a portare le armi, attraversando la città o il castello, non potevano smontare dalla cavalcatura.
Solo nella prima metà del settecento sembra attenuarsi l’emergenza sulle armi da fuoco, e viene ridotta addirittura la tariffa per il rilascio della licenza per il porto. Le crisi, che erano diventate delle vere emergenze per quanto riguarda la criminalità, si erano susseguite nei secoli precedenti per lo scoppio di pestilenze o per altri fattori in controllabili. Ad esse Venezia aveva saputo rispondere facendosi guidare dalla sua millenaria saggezza.
Per finire: un cenno alle milizie territoriali, composte da bravi contadini che vedevano in San Marco il loro stato, fin dai tempi della guerra di Cambray. Queste milizie, con leva territoriale obbligatoria, venivano addestrate al tiro al bersaglio e alle manovre un paio di volte l’anno; esse avevano il diritto di detenere l’arma in casa (lo schioppo in dotazione), ma non la polvere e le ralative munzioni, anche se non era difficile procurarsele. Evidentemente per lo Stato veneto, questo costituiva un rischio minimo, data la fedeltà proverbiale dei suoi sudditi.
L’organizzazione militare di Venezia nel 500 di Sir J. R. Hale
Giustizia veneta di Edoardo Rubini
Società e Giustizia nella repubblica veneta (sec.XV-XVIII) a cura di Gaetano Cozzi.
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