L'EMIGRAZIONE NEL BELLUNESE NEL '700: "EL CARGHETA"

La provincia di Belluno è tradizionalmente nota per la sua caratteristica di paese di emigranti.

«Ogni famiglia, dalla più povera alla più ricca, ha avuto emigranti […]. Emigrazione significa storia dei nostri padri. E queste radici sono degne di essere conosciute, non fosse altro perché, quasi sempre, emigrare ha significato – in passato – alleviare la fame di chi partiva e di chi restava. In molti casi ha significato il trampolino di lancio per un’esistenza più dignitosa e di maggior benessere economico per figli e nipoti, fino ai giorni nostri». [1]

Fin da bambini, abbiamo sentito parlare dei nostri nonni e bisnonni che, con la loro valigia di cartone, se ne partivano diretti verso città lontane, il più delle volte in paesi stranieri, alla ricerca di fonti di guadagno che non riuscivano a trovare nel luogo natio. Gli uomini si dedicavano ai mestieri più disparati: oltre a quelli, comunemente noti, legati alla cantieristica, sono degni di menzione, i gelatieri, grazie ai quali Belluno è conosciuta, anche oggi, in molti paesi esteri; i cosiddetti Scòti, zoldani che, verso la metà dell’Ottocento, andavano a Milano durante la stagione invernale a vendere castagne cotte e pere; gli squarador, che si recavano, prevalentemente in Romania a sagomare le piante dei boschi, e i seggiolai ambulanti, o caregheta,
certamente i più conosciuti, provenienti soprattutto dall’Agordino. [2] Quest’ultima attività risale certamente alla fine del ’700 e si sviluppò dapprima nei paesi di Gosaldo e Tiser, per estendersi poi ad altri luoghi dell’Agordino, in particolare a Rivamonte, dove, a causa dei fumi sulfurei che si sprigionavano dai forni delle miniere, i terreni diventavano sterili e l’agricoltura insufficiente al mantenimento delle famiglie; questo mestiere costituiva una valida alternativa al duro lavoro in miniera, anche se comportava il sacrificio di una vita itinerante, lontano da casa e dalla famiglia. 

I seggiolai partivano tra la fine di agosto e l’inizio di ottobre, quando i lavori nei prati e nei campi erano quasi terminati e la legna per l’inverno era stata preparata; non tornavano che verso maggio-giugno dell’anno seguente, dopo aver girato intere province ed aver condotto una vita di stenti, cercando di risparmiare il più possibile, per la famiglia lontana. 

  
A volte, questa emigrazione, da stagionale poteva trasformarsi in definitiva, in quanto i continui contatti con zone e culture diverse da quella del paese d’origine poteva cambiare la mentalità e il modo di essere degli itineranti, al punto da non farli sentire più a loro agio nei luoghi nativi. [1]

Una delle mete più consuete dei caregheta era sicuramente Venezia, dove già nel 1594 è attestata, nella parrocchia di S. Salvador, la presenza, tra gli immigrati, di Bortolomio, «conza carieghe» da Agordo; [2] inoltre, Gaetano Zompini, nella sua opera Le arti che vanno per via nella città di Venezia, ci dà una realistica rappresentazione di un seggiolaio ambulante, proveniente dal Cadore, che si recava nella Dominante per esercitare il suo mestiere. [3]

Un’efficace descrizione della vita di questi lavoratori itineranti ce la fornisce Giovanni Grevenbroch:

«Noi intendiamo di estendere il fervore industrioso del povero popolo, che circonda la Terra di Agort nel Territorio Bellunese (non Friulese), stante che alcuni di quei Villici, massime nell’Inverno, obbligati dalla fame, abbandonano il proprio Nido, per ricoverarsi in sì felice Metropoli, dove mediante meccanico lavoro, secondo il loro basso intelletto, provvedono all’indigenza estrema e al mantenimento quotidiano […]. Tali sono gli Conza Careghe, Gente senz’Arte e senza altra attività, che di costruire Sedie d’ogni sorte, di legno di Salce, e trecce di paglia, tradotta da dolci Paludi. Costoro non eccedono il numero di cento, ne più di otto mesi a vicenda a Venezia dimorano, nelle Contrade di S. Luca, di S. Barnaba, e S. Maria Nova, vivendo con parsimonia, onde conservare il Denaro, in maniera che non si alimentano di altro, che di Polenta, cibo invero per necessità gradito ne’ nativi alpestri paesi». [4]


[1] S. C. Re, Seggiolai dell’Agordino, Sedico 2001, pp. 5-20.
[2] Knapton M., Tra Dominante e dominio (1517-1630), in: Cozzi G., Knapton M. e Scarabello G., "La Repubblica di Venezia nell’età moderna. Dal 1517 alla fine della Repubblica", Torino 1992, p. 286.
[3] Zompini G., Le arti che vanno per via nella città di Venezia, Milano 1980, p. 5.
[4] Grevenbroch G., Gli abiti de veneziani di quasi ogni età con diligenza raccolti e dipinti nel secolo XVIII, Venezia (1754-60), stampa Venezia 1980; l’opera originale è stata realizzata tra il 1754 e il 1760, p. 79.


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