Le violenze sulle donne compiute dai NobilUomini




Monacazione forzata, una violenza maschile spacciata per fede

Uno dei primi sintomi del processo di disgregazione dello Stato della Serenissima (iniziato con la fine del 1500) credo possa essere stato quello della monacazione forzata contrapposto alla diminuzione dei matrimoni tra nobili.

Altre teorie, piuttosto diffuse nel XIX sec., sostengono che la decadenza, lo sfascio e lo sgretolarsi della società veneziana avesse le sue origini dai “pervertiti costumi” e dai comportamenti lascivi e dissoluti che oramai erano molto diffusi presso tutti gli strati sociali dei veneziani del XVII° e XVIII° sec.  
 
 Già nel 1700 era diffusa la convinzione che il marcio fosse nel punto nevralgico della crescita della società: la formazione. Le giovani fanciulle e fanciulli erano affidati ad insegnanti (abatucoli e pretonzoli) ignoranti e immorali che spesso, approfittando dell’ innocenza dei ragazzini e dell’immunità che dava loro l’abito talare e l’ambiente monastico, ne approfittavano per soddisfare la propria depravazione e le deviazioni sessuali.




Questi aspetti di un’educazione per certi versi senza i valori morali originari della Serenissima, inevitabilmente, mi portano alla memoria i sonetti di Zorzi (Giorgio) Baffo, nobiluomo e magistrato della Serenissima Repubblica del 1700. Compose numerose poesie erotiche, irriverenti, divertenti ed oscene, per denunciare i comportamenti di pretonzoli, di abbatucoli e di frati, formatori-corruttori di fanciulli e ragazzi…eccone un esempio divertente ma solo nel titolo: “Sorpresa di un frate mentre buzarava un ragazzo”.



È lui stesso a rivelarci, senza assumere la figura del moralizzatore di turno, le motivazioni dei suoi scritti e per chi scrive: “per le persone senza doppio fondo, in buona fede, per coloro che intendono il sesso come cosa bella, allegra, buona”, per concludere rivelando che i suoi sonetti parleranno in modo diretto e semplice ... ”di cose deliciosissime, cioè de bocche, tette, culi, cazzi e mone”.


In parallelo diminuiva il numero dei patrizi del Gran Consiglio al punto da metter in vendita nel 1646 ben 80 titoli a famiglie benestanti appartenenti al ceto medio dei cittadini e all’aristocrazia della terraferma, dove crescevano e si sviluppavano le nuove ricchezze nate dalle attività artigianali sempre più organizzate sui nuovi modelli industrializzati provenienti dal nord Europa.
Il fatto venne chiamato “La Terza Serrata” ed i nuovi aristocratici, per diventar tali, sborsarono 100.000 ducati l’uno per il titolo. La Serenissima con queste entrate riuscì a finanziare anche la guerra di Creta (1645-1669).
Secondo le cronache del 1600 risulta che in quegli anni, a causa dell’estinzione di molte famiglie nobili, il numero dei patrizi era passato da 4500 a 3000 nel giro di qualche decennio.
Tra il XV° ed il XVII° secolo l’aristocrazia e la nobiltà della Serenissima pianificavano secondo criteri di natura politico-economica i matrimoni e le monacazioni dei loro figli alla pari di molte altre città italiane. Allora il patrimonio, alla morte del padre in base alla legge del Maggiorasco, doveva andare in eredità al primogenito mentre tutti gli altri figli se erano maschi erano avviati alla carriera militare o ecclesiastica, se invece erano femmine non avevano molte scelte se non andavano in spose a qualche nobile. Per tutelare i patrimoni ed evitare le notevoli spese dei matrimoni, doti comprese, erano destinate a finire già da adolescenti nei monasteri.
Il meccanismo del mercato matrimoniale veneziano, per uomini e donne, era regolato dall’endogamia (matrimoni all’interno del proprio gruppo socio-economico) che riduceva le possibilità per le ragazze di sposarsi con un uomo adeguato al loro status e funzionava in maniera diametralmente opposto: se le donne dovevano scegliere solo mariti di pari stato sociale, gli uomini invece cercavano le proprie mogli “verso il basso” o celebravano matrimoni segreti. Quanto più le nobildonne dovevano evitare di sposarsi “verso il basso”, tanto più i nobiluomini cercavano le proprie mogli fra le “cittadine” con doti elevate.
Così le donne da maritare dovevano essere eliminate dal mercato dei pretendenti ed il convento era l’unica soluzione per salvaguardare il buon nome del casato, onore e capitali.
Questo fenomeno della monacazione forzata nacque e si sviluppò inizialmente solo in ambito della Serenissima con conseguente calo dei matrimoni tra patrizi molto rapido: dai 40 matrimoni/anno (periodo 1560-1574) ai 28/anno per tutto il XVII° secolo.
Il patriarca Giovanni Tiepolo commentava nei primi anni del 1600 l’aumento delle monacazioni forzate in questo modo:
” […] riflettendo in me stesso come esse (le monache) siano nobili, allevate, e nodrite con somma delicatezza, et rispetto, che se fossero d’altro sesso ad esse toccarebbe il comandare, e governare il Mondo, che si sono confinate fra quelle mura non per spirito di devotione, ma per impulso dei loro, facendo della propria libertà tanto cara anco a quelli che mancano dell’uso della ragione, un dono non solo a Dio, ma anco alla Patria, al Mondo, et alli loro più stretti parenti […] ”.
Canale caratterizzato dalla presenza di abitazioni di proprietà di monache (muneghe)
Per qualche secolo la monacazione forzata venne praticata nonostante le precise e severe disposizioni della Chiesa e della Repubblica emanate per combattere tale ingiustizia. Questa forma di violenza mascherata, molto odiosa, colpiva fanciulle ingenue e indifese non solo appartenenti a famiglie aristocratiche, ma anche di quelle che dovevano scegliere questa strada per questioni economiche in cui erano venute a trovarsi.
Già dall’età di 6-8 anni le bambine venivano rinchiuse senza avere alcuna conoscenza del mondo; il problema nasceva quando rientravano in famiglia per il periodo di prova che serviva per accertare la predisposizione al voto. Lo schock che subivano, alla scoperta delle gioie di un’altra vita, era forte per cui nascevano i ripensamenti e i pentimenti.
Molte, malcelando una seria vocazione, rimanevano tra le mura della cella perché fuggivano da padri e fratelli violenti, perché credevano che fosse il modo migliore per servire Dio, perché avevano a disposizione i mezzi per crescere culturalmente oppure perché il loro onore era a rischio.
Teatro, canto, pittura, musica e scrittura erano attività che avevano prevalentemente una funzione religiosa e liturgica, ma costituivano anche forme d’intrattenimento e di svago per le monache stesse, inoltre potevano scrivere poesie e opere che venivano poi messe in scena durante le festività o le celebrazioni religiose. L’impegno culturale e politico di alcune monache forzate, in contrapposizione al regime di clausura, ci ha consentito di conoscere dall’interno, cioè raccontato in prima persona, il fenomeno della monacazione forzata con la pubblicazione di opere di denuncia, anche postume, come quelle di suor Arcangela, all’anagrafe Elena Cassandra Tarabotti, “La Semplicità Ingannata o La Tirannia paterna”, “L'Inferno monacale” e il “Paradiso monacale”.
Suor Arcangela, all’anagrafe Elena Cassandra Tarabotti
La dote conventuale, all’inizio del Seicento, era stata fissata in 800-1.000 ducati, mentre per le converse erano molto inferiori e si aggiravano intorno ai 300 ducati.
L’ordine gerarchico esistente all’interno dei monasteri rispecchiava quanto succedeva fuori. Quelle ricche ed appartenenti alle famiglie più potenti comandavano mentre quelle di origine non nobile conducevano una vita al servizio delle prime, rimanendo delle ignoranti che a mala pena sapevano leggere ma comunque senza accesso alla cultura.
Tra il 1608 ed il 1618, come risultava dall’anagrafe, il 75% delle monache veneziane erano di origine nobile, fino a rappresentare in alcuni conventi il 99% come in quello di S.Caterina, dove solo una non era patrizia.
Sempre in quegli anni a Venezia si contavano una cinquantina di monasteri, di cui una trentina solo in laguna e la popolazione monacale superava le 2000 unità.

Le ragazze, diventando forzatamente monache, erano considerate una specie di cassaforte finanziaria per il futuro della casata stessa, visto che in questo modo il patrimonio ereditario veniva conservato a favore del primogenito.
Inevitabilmente a queste “forzate” della fede e dell’astinenza, la vita all’interno delle mura conventuali veniva agevolata dalle loro famiglie. Infatti potevano disporre di stanze arredate lussuosamente e pare avessero anche una certa libertà nel vestire come risulta dalla testimonianza di un notabile al seguito del Granduca di Toscana Cosimo III de’ Medici quando giunse in laguna:”E' questo il più ricco monastero di Venezia, e vi sono sopra 100 madri, tutte gentildonne. Vestono leggiadrissimamente con abito bianco come alla franzese, il busto di bisso a piegoline, e le professe trina nera larga tre dita sulle costure di esso; un velo piccolo cinge loro la fronte, sotto il quale escono li capelli arricciati, e lindamente accomodati; seno mezzo scoperto, e tutto insieme abito più da ninfe che da monache”.

A Venezia il libertinaggio non era un privilegio laico, tanto che Francesco Guardi immortala questo malcostume nel dipinto “Il parlatorio delle monache di San Zaccaria” ora custodito nel Museo del settecento veneziano a Ca' Rezzonico, dove viene raffigurata una festa con tanto di ospiti maschili e teatrino delle marionette nel parlatorio delle monache.
Gli ordini preferiti erano quelli benedettini ed agostiniani mentre quelli francescani, carmelitani e cappuccini non erano graditi dalle famiglie patrizie in quanto osservavano una stretta clausura, mal tollerata dalle loro figlie prive di qualsiasi vocazione o viziate da certi tenori di vita.
Spesso succedeva pure che monache, appartenenti a importanti famiglie, venissero prelevate con la forza dalle loro celle e usate come merce di scambio nella politica matrimoniale e di riappacificazione in una società insanguinata dalle continue lotte e faide fra famiglie rivali.
Parlatorio, giorno di visite, Pietro-Longhi
 Cronache scandalose
“[…] Nel gennaio 1659, alcune Monache furono condotte a processo: “per fuochi d'artificio e balli di donne fatte venire da Venezia nel cortile del Monasterio per opera di quattro secolari” … “L’anno seguente si giunse perfino a inquisire Podestà ed altri, per pranzi, cene, ecc. in e fuori del Monastero, coll'Abbadessa e con due Monache Converse […]”.

Il parlatorio delle Monache Di San Zaccaria, Francesco Guardi
Nel settembre del 1682 venne celebrato un processo a carico delle Monache del Monastero di S.Eufemia, a seguito della visita ispettiva del Vescovo Jacopo Vianoli che “[..] s’infilò dappertutto a controllare tutto e tutti […]. Sembrava tutto a posto: sia in chiesa che nel Monastero, dove c’erano tutti i Libri di Devozione, i Breviari e i Messali giusti, anche se c’era qualche ornamento superfluo più dell’ordinario […]“, e che aveva accertato […] per frequenza nei Parlatori di un Patrizio […]”. 
Le Monache sapevano destreggiarsi fra zelo, a volte fin troppo eccessivo, ed intransigenza per quanto riguardava le questioni economiche “[…] come quando litigarono per quasi vent’anni contro la famiglia di Zuanne Trevisan da Burano per via di una Mansioneria di Messe da pagare istituita dalla defunta Meneghina vedova di GiovanBattista Trevisan [...] e atti di libertinaggio estremo come quando nel 1691 alcune Monache finirono sotto processo “[…] per commercio carnale con parto di una donna e pericoli di veleni, coinvolgendo un Patrizio ed altri […]”.
Isola di Mazzorbo, sulla destra del canale il Monastero di Santa Fèmia
Annotava il frate Vincenzo Coronelli nel suo “Isolario” (1696) riguardo i monasteri esistenti sull’isola di Mazzorbo:
“[…] Il Canale di Mazzorbo hà i suoi casini di campagna per divertimento e delizia di Gentiluomini, fra quali considerabili sono quelli del NobilHomo Girolamo Morosini su la punta di Santa Maria, del Procuratore Corsaro nella parte di San Pietro, e del Maimenti a Sant’Eufemia, ch’è il più bello di ogni altro [...]”.
“ […] Le Monache del Santa Fèmia de Mazzorbo (monastero di Sant’Eufemia a Mazzorbo) continuarono ad incaponirsi (certe cause durarono oltre un secolo) contro nobili e nobildonne per lasciti mai acquisiti, per non parlare dei debiti e dei crediti esistenti con l’Arte dei Pistori, con l’Arte dei Luganegheri di Venezia, con la Scuola Granda di San Rocco.
Diversi atti processuali raccontano che “[…] il Monastero venne perseguito da Dogi, Inquisizione e Patriarchi per la sua smoderatezza subendo ben 10 processi per abusi sessuali delle Monache con nascita di 2 bambini […].
Inoltre storie di abusi e di libertinaggio riguardanti le Monache di Mazzorbo furono per molti anni al centro dei pettegolezzi e storie piccanti di Venezia e della Laguna.

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