LA SPADA SCHIAVONA, TUTTO QUELLO CHE NON TROVATE IN WIKI
A cura di Millo Bozzolan
Questa nota è un sunto di un paio di lavori di Gianrodolfo Rotasso. Vi chiederete chi è: è uno dei più grandi esperti di questo tipo di spada (e di altre veneziane), a cui ha dedicato una vita di ricerche. Probabilmente lo stimolo maggiore deriva dal fatto che Rotasso (ex maresciallo degli alpini) è di Belluno, luogo di nascita e produzione di tale spada. Quindi abbiamo una spada “montanara” destinata alle truppe d’oltremare, o agli oltremarini in genere, ed il fatto è abbastanza curioso, se vogliamo.
In realtà non poteva che essere così: Belluno, fin ai tempi antichi, agevolata dalla presenza di miniere di ferro, è stata sempre luogo di estrazione e lavorazione di tale metallo, e i suoi fabbri diventarono sempre più bravi, anche grazie agli scambi continui con i colleghi d’oltralpe, i quali ad un certo punto, si misero ad imitare gli spadai bellunesi, falsificandone a volte il marchio. Come il nome di Andrea Ferara da Fonzaso, il quale fu il primo fabbricante di schiavone e diventò celebre in tutta Europa. Le miniere del Fursil, ad esempio, a nord est di Belluno davano un ferro ricco di manganese, che si prestava benissimo alla fucinatura detta “a stoffa”. Ossia si martellavano assieme le lamine a caldo di acciaio e di ferro, che si saldavano per “bollitura”. Ciò permetteva anche un’ottima tempra della lama, “dura nel fendere, ma non facile a scheggiarsi”.
Gran parte dell’attività era svolta lungo il corso del torrente Ardo, tra Busighel e Fisterre, ad iniziare dal secolo XV. Tale attività già nel secolo dopo era talmente intensa che si arrivò a produrre “fin 25000 spade all’anno di ogni sorte”. Nel 1578 alcuni inglesi firmarono un contratto per la produzione di 7200 spade all’anno (600 al mese!) per un periodo di 10 anni. In Inghilterra furono chiamate “Glaymore” (erano anche di produzione locale scozzese con delle varianti nel disegno del cesto)..
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la spada col fodero da me ricostruito, poi buttato nelle "scoasse" da chi mi acquistò l'arma; triste storia. |
Molte persone quando sentono parlare di “spada schiavonesca” pensano si tratti della nostra schiavona. Nulla di più sbagliato: la schiavonesca è l’antenata della schiavona, essendo una spada rinascimentale veneziana a lama larga da cavalleria o da fianco. Però è priva di gabbia e ha solo la guardia del’elsa a S, simile a quella della schiavona (mezzo S, dalla parte dritta è saldato il sostegno della gabbia). Rivelatosi insufficiente il riparo per la mano, si incominciò a progettare un disegno a due poi a tre vie (fili trasversali a riparo della mano) che costituivano già una prima gabbia rudimentale. Da questa piattaforma, l’abilità e l’ingegno del Ferara seppe far nascere la gabbia tipica della nostra spada. Ormai, già con i primi tre fili trasversali possiamo considerare queste armi delle schiavone. Siamo alla fine del XVI secolo. Vedete al figura 2 con l’evoluzione nel tempo..
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E’ giunta l’ora di passare alla descrizione della nostra protagonista:
è presente in genere (ma non sempre) un pomello “a testa di gatto” di ottone o ferro, con un orecchio forato per far passare un cordoncino di sicurezza, Questo pomello presenta a volte un motivo ornamentale. La guardia dell’elsa ha un braccetto ricurvo sulla destra, mentre quello opposto serve da sostegno ai fili della gabbia riuniti in quel punto e abilmente saldati.
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.Il manico dell’elsa è in legno, o legno ricoperto di cuoio con un filo sotto attorcigliato in modo da rendere più sicura la presa della mano. Che deve esser forte trattandosi di uno spadone che supera anche i 1400 grammi. Nel modello in mio possesso, fedele replica di una schiavona del 1630 eseguita dal maestro Del Tin (sotto la guida di Gianrodolfo Rotasso, come lui stesso mi ha raccontato) è presente un gancio a cui in maniera naturale si aggrappa il pollice, rendendo la spada di una maneggevolezza straordinaria. La “testa di gatto” sembra in realtà voler richiamare le tre leonesse, o tigri (per il Rotasso son tigri, ma io ho dei dubbi) dipinte su uno scudo a sfondo azzurro, simbolo della Dalmazia.
.Il manico dell’elsa è in legno, o legno ricoperto di cuoio con un filo sotto attorcigliato in modo da rendere più sicura la presa della mano. Che deve esser forte trattandosi di uno spadone che supera anche i 1400 grammi. Nel modello in mio possesso, fedele replica di una schiavona del 1630 eseguita dal maestro Del Tin (sotto la guida di Gianrodolfo Rotasso, come lui stesso mi ha raccontato) è presente un gancio a cui in maniera naturale si aggrappa il pollice, rendendo la spada di una maneggevolezza straordinaria. La “testa di gatto” sembra in realtà voler richiamare le tre leonesse, o tigri (per il Rotasso son tigri, ma io ho dei dubbi) dipinte su uno scudo a sfondo azzurro, simbolo della Dalmazia.
Della gabbia, si ammira in genere la complessità dell’intreccio e l’eleganza. Nei secoli ha assunto varie forme, a seconda della moda del momento e del committente. Le più leggiadre furono quelle dell’ultimo periodo, in cui è evidente una influenza barocca, le più belle ed eleganti sono forse quelle disegnate nel 1600.
La lama non superava mai il metro (parliamo sempre in genere), la mia fa 98 cm.e la lunghezza dell’elsa era sui dodici. Più spesso era a doppio filo, oppure a un filo e mezzo. Raramente a un filo unico. Molto spesso compare il marchio posto vicino alla gabbia, composto da un semplice disegno, a volte dal profilo di un lupo, che poteva probabilmente inspirarsi a quello presente nello stemma bellunese ancor oggi. Se si voleva indicare la provenienza “foresta” si incideva un bel lupo di profilo, in movimento, ed era il lupo di Solingen, famosa città ove si fabbricavano lame eccellenti. Ma, come ho detto, quelli di Solingen dopo un po’ presero a imitare la firma ed i lupi del nostro Ferara, anche dopo la sua morte.
Nel gergo militare veneziano, erano anche chiamate “palossi”, da “pallach” spada a lama larga atta a finir la preda nella partite di caccia a selvaggina grossa. “Palossetti” erano anche detti i corti “briquet” in uso alla fanteria nel 700. di lama larga ma ricurva e molto più corta.
Per l'uso di queste spadone furono celebri gli Schiavoni, fino a dare il nome all’arma stessa, invariabilmente descritti dagli studiosi come “mercenari oltremarini”, tanto ormai si è perso il senso di cosa fosse la Repubblica di San Marco, e quanto poco essa si potesse inquadrare nell’”italianità” corrente d’oggi.
Erano certamente professionisti pagati, come tutti i soldati dell’epoca, ma erano i soldati prediletti della Repubblica, al cui affetto del resto essi rispondevano con un amore viscerale; erano “nazionali” (nazionali oltremarini) veri e propri, mentre le truppe della fanteria di linea erano composte da “italiani foresti”per la gran parte, anche se non mancavano genti venete tra di esse. Il modo con qui viene scritto oggi quel “mercenari oltremarini” fa pensare a gente pronta a servire ogni bandiera. Invece la bandiera marciana era la loro bandiera. Avevano persino l’onore, quelli di Perasto, fieri montenegrini, di custodire quella da guerra della flotta veneta. Il capo attuale della comunità e “marinarezza” di Perasto del resto ci ha detto, con grande commozione, che eravamo: “Due popoli, una nazione”. Questo in occasione della commemorazione della cerimonia del seppellimento del “gonfalon” sotto l’altare della chiesa principale della cittadina, come accadde nell’agosto del 1797, all’arrivo degli austriaci, tra “universal, amarissimo pianto”. Tante lacrime furono versate da quei fieri montenegrini, baciando il gonfalone uno ad uno, che esso alla fine era zuppo come fosse stato esposto ad una tempesta d’acqua. Così narrano le cronache dell’epoca. La spada schiavona rappresenta anche questo.
dalla schiavonesca alla schiavona |
Molto intetessante
RispondiEliminasu un vecchio numero di "armi e tiro" c'era come era fatta la gabbia della schiavona partendo dalla ""lamiera"" piatta e come farla , ancora oggi non mi perdono di aver perso quella rivista
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