EL DOGE MANIN DAL CORE PICININ. MA E' PROPRIO VERO?



La storiografia a volte viene corretta e certi  eventi e personaggi, vengono visti su luce diversa almeno da storiografi più sensibili a certi temi. Ultimamente pare sia successo anche riguardo alla controversa figura del Doge ultimo, Lodovico Manin, che ebbe la disgrazia, che lui soffrì fino in fondo, di accompagnare alla morte una Repubblica millenaria, ancora amata dal popolo che governava.
In effetti, leggendo le pagine del Suo diario, ristampato nel 1997 in occasione del bicentenario della caduta, anch'io ho cambiato opinione sul personaggio, colpito dalla Sua dirittura morale che lo portò a rifiutare ogni collaborazione col nuovo regime, malgrado pressioni e velate minacce da parte dei Municipalisti veneziani, che volevano usare la sua figure per dimostrarsi in certo modo eredi e continuatori del defunto stato. Ecco cosa scrissi l'anno passato:

IL GRAN RIFIUTO DELL'ULTIMO DOGE



Sia nel momento del trapasso di poteri tra la Municipalità giacobina imposta dai francesi, che nei mesi seguenti, il Doge Manin subì una pressione enorme perché lo si voleva nel ruolo di Presidente della Municipalità stessa.

L'intento probabile era di dare un senso di continuità allo Stato veneto, legittimando la predazione dello stato veneto e anche i municipalisti come governanti davanti ai sudditi ora trasformati in "cittadini" (alquanto riottosi, a quanto pareva). Insistevano anche i suoi parenti, e diversi patrizi, probabilmente sperando che l'ex Doge potesse attenuare lo sconquasso del cambio di governo, ma Egli fermamente rifiutò. Ecco cosa scrisse nelle sue memorie:.

cerimonia pubblica dei municipalisti in piazza San Marco, in un deserto di pubblico che la dice lunga.
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"Tali blande proposizioni furono dal signor Tomà Soranzo, ch'era destinato a maneggiar molti affari... cambiate in assolute minacce, dicendo che il signor Willetard, che allora era Ministro di Francia, voleva ciò assolutamente, minacciando in caso di renitenza, la vita stessa.
Io gli risposi sempre con la stessa fermezza, avendo già supplito ai miei doveri di Cristiano e presa anche d aMonsignor Patriarca la benedizione in articulo mortis, che li Francesi erano padroni della mia vita, ma della mia religione e del mio onore, era padrone solo Iddio. 
Quello però che in tal incontro vi fu di estremo peso, e che per superarlo vi volle estrema forza, furono le istanze della famiglia, dei parenti, e di molte persone ragguardevoli, le quali insistevano acciò non rifiutassi tale impiego, nella ferma persuasione che potessi fare molto bene, arrivando anche ad imputarmi di non volermi impegnare in vantaggio della mia amata patria. Ma io ero certo di non poter fare alcun bene, né impedire alcuni mali che intendevo sovrastare, per ottenere il bene della patria avrei volentieri dato tutte le mie sostanze e e la mia vita stessa; ma avevo la certezza all'incontrario che avrei perso il mio onore, arrischiavo di perdere la vita e la religione stessa, senz'alcun profitto; il che in seguito fu conosciuto e confessato da tutti. 

fonte bibliografica: "io, l'ultimo Doge di Venezia" a cura di Giovanni Scarabello forse lo troverete ancora nel web. Il libro è in mio posseso, ma non lo presto, eh! :) bello il saggio introduttivo in cui lo storico rivaluta il doge.

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