I SABIONANTI DE SOTOMARINA E LA DONA "CAVALA"
di Gina Duse
La vita fluviale ha modellato una cultura molto interessante che nel 1984 è stata l’argomento di una mostra documentaria di tutti i suoi aspetti. Da essa è poi stato ricavato il libro Un mestiere e un paese. I sabionanti di Sottomarina ( Marsilio 1986). Tre studiosi locali – F. Boscolo, C. Gibin, P.G. Tiozzo- hanno raccolto testimonianze orali, fotografie, campioni di sabbie e attrezzi, tra cui il bailόn, evidenziando come l’esperienza delle famiglie dei sabionanti sia parte integrante dell’identità storica del territorio. Informazioni sono state fornite anche da alcune donne. Uno dei meriti della ricerca è stato quello di dare loro rappresentanza. La mostra ha stimolato la memoria e favorito la presa di coscienza del valore di vissuti femminili anche umili.
Il mercato oggi richiede capacità imprenditoriali e chi ha continuato il mestiere del padre e del nonno si è dovuto aggiornare per sopravvivere alla selezione su scala internazionale. In internet possiamo riscontrare la presenza di ditte locali affermate, capaci di prestazioni di alto livello tecnologico, con un importante giro di affari. Nel nuovo contesto, le donne svolgono lavoro d’ufficio tipici del terziario. Non è un caso però che i leader del settore abbiano conservato il bailόn di famiglia come un prezioso cimelio.
ìaah, ìaah, cavala!, lungo gli argini dei fiumi Brenta e Bacchiglione, fino agli anni Cinquanta, è risuonato spesso questo verso. Peccato che venisse rivolto non solo all’animale da traino per farlo camminare, ma anche alle donne dei sabionanti di Sottomarina, il lido di Chioggia. Oltre alla fatica, esse dovevano sopportare lo scherno dei contadini. Bardate come cavalli, tiravano la fune, l’alsàna, per rimorchiare da riva le imbarcazioni che andavano a prelevare la sabbia dal letto dei fiumi. C’era sì chi di mestiere metteva a disposizione i cavalli, i cavallanti, ma per risparmiare sulle spese se ne faceva a meno e si ricorreva alle donne, le più giovani e robuste. Gli uomini, comunque, non se ne stavano con le mani in mano. Rimanevano a bordo a dirigere il burcio, questo il nome dell’imbarcazione usata in quel periodo per la navigazione fluviale, e a spingerlo a forza di remi lunghissimi.
Per i sabionanti di Sottomarina e per le loro donne, la prima metà del Novecento, quando non c’erano ancora i mezzi meccanici che sostituissero la forza muscolare, è stata la fase eroica. Ottanta i burci, realizzati nei cantieri di Chioggia, trecento gli addetti al settore. I motivi dell’espansione sono da ricercarsi nella crescita edilizia ed industriale dell’area lagunare, nella crisi orticola e nell’emergere della navigazione interna. La sabbia, utile alle costruzioni -grigio giallastra o grigio rossiccia quella della Brenta, grigia punteggiata di scuro quella del Bacchiglione-, veniva poi trasportata verso Venezia o verso destinazioni più lontane. Se la materia prima, el sabiόn, dà il nome alla categoria, lo strumento simbolo del lavoro e di una mentalità è il bailόn (badilone), un badile di enormi dimensioni che da bordo del burcio veniva piantato nel fondo del fiume e tirato su pieno. Anche a questo tipo di operazione la donna prestava le proprie braccia.
Sembra una pagina di Neorealismo, ma non è letteratura bensì cronaca, l’articolo stampato sul Gazzettino Sera del 27 gennaio 1951, che porta il titolo Vita solitaria dei nostri fiumaroli. Barconi sul Brenta. Il testo è lungo e particolareggiato, ne trascriviamo alcune righe, significative della condizione femminile: “Nei pressi di Sant’Angelo, frazione di Chioggia, un tratto di fiume, una piccola flotta sosta fino a quando anche la strada che lo fiancheggia rimane deserta (…). Le donne, anche parecchie ragazze giovani dalle gambe nude e dal volto paonazzo dal freddo, aiutano gli uomini all’estrazione (…). A mezzogiorno e alle diciassette le donne preparano a bordo la polenta per l’equipaggio affamato: allora si cessa il lavoro faticoso e accosciati sul ponte a schiena d’asino tutti in silenzio mangiano”.
Il lavoro domestico era l’altra occupazione delle donne. Il burcio era, infatti, luogo di lavoro e di unità familiare. Una seconda casa galleggiante che trasportava un’intera famiglia, cane compreso, e che aveva bisogno di essere rigovernata quanto un’abitazione. Tanto l’esistenza era precaria che il burcio portava quasi sempre nomi di santi per la protezione da disgrazie e pericoli.
Marina vecia di inizio Novecento |
La vita fluviale ha modellato una cultura molto interessante che nel 1984 è stata l’argomento di una mostra documentaria di tutti i suoi aspetti. Da essa è poi stato ricavato il libro Un mestiere e un paese. I sabionanti di Sottomarina ( Marsilio 1986). Tre studiosi locali – F. Boscolo, C. Gibin, P.G. Tiozzo- hanno raccolto testimonianze orali, fotografie, campioni di sabbie e attrezzi, tra cui il bailόn, evidenziando come l’esperienza delle famiglie dei sabionanti sia parte integrante dell’identità storica del territorio. Informazioni sono state fornite anche da alcune donne. Uno dei meriti della ricerca è stato quello di dare loro rappresentanza. La mostra ha stimolato la memoria e favorito la presa di coscienza del valore di vissuti femminili anche umili.
i"tiranti" sul Piovego presso "el ponte dei Graisi" tra Stanga e Camin |
Il mercato oggi richiede capacità imprenditoriali e chi ha continuato il mestiere del padre e del nonno si è dovuto aggiornare per sopravvivere alla selezione su scala internazionale. In internet possiamo riscontrare la presenza di ditte locali affermate, capaci di prestazioni di alto livello tecnologico, con un importante giro di affari. Nel nuovo contesto, le donne svolgono lavoro d’ufficio tipici del terziario. Non è un caso però che i leader del settore abbiano conservato il bailόn di famiglia come un prezioso cimelio.
Nessuna nostalgia della donna cavala. Ma il risarcimento del rispetto che un tempo le è stato negato, questo sì. La toponomastica femminile ha la funzione di estinguere il debito di memoria. .
Commenti
Posta un commento