I BANDITI DEL VENETO STORIA DI UNA TERRA TRADITA DAL POTERE
di Francesco Jori
Strano destino. Neanche nel negativo il Veneto riesce a farsi prendere sul serio. Quintalate di studi e ricerche hanno approfondito il fenomeno del brigantaggio italiano, specie nel Mezzogiorno ma non soltanto; fermandosi comunque regolarmente davanti alle porte di casa nostra. Un esempio banale: perfino la popolarissima Wikipedia, nell’ampia voce dedicata alla questione, propone un dettagliato elenco di briganti famosi, che spazia in 13 delle 20 regioni italiane, dalla Sicilia al Piemonte; ma i veneti risultano del tutto assenti. Non figurano nel catalogo “grandi firme” del crimine come i Ghino di Tacco, i Salvatore Giuliano, gli Stefano Pelloni. E ci sarà magari un difetto d’origine addirittura semantico, visto che secondo gli esperti la parola “brigante” avrebbe una radice celtica che significa “altitudine”: gente insomma che scende dall’alto, dalle montagne, dove ha i propri covi. Non c’è posto nel gotha del brigantaggio per gli scalcinati veneti delle basse.
E invece è proprio da quel limbo di silenzio che li sottrae Francesco Selmin in un agile ma denso libro edito da Cierre: “Ammazzateli tutti! - Storie di banditi del Veneto”.
Storico di valore, padovano di Este, fondatore e direttore della rivista “Terra e Storia”, Selmin ha già all’attivo diverse pubblicazioni legate alla realtà veneta. In quest’ultima fatica ha analizzato il fenomeno lungo l’arco di un secolo e mezzo, dagli inizi dell’Ottocento alla seconda guerra mondiale, suddividendolo in tre grandi fasi che corrispondono ad altrettanti contesti storici e sociali.
La prima è quella che mette radici nel 1809, e ha tratti comuni ad altre parti d’Italia, specie nel Mezzogiorno. In Veneto è legata alle cosiddette insorgenze, sommosse popolari esplose in particolare dall’alto Vicentino al Polesine passando per la Bassa padovana, in un momento in cui la regione era in mano ai francesi. In queste sollevazioni collettive giocano motivi diversi, come giustamente spiega Selmin: la ribellione contro lo straniero, certo, ma anche contro una classe dirigente locale che era espressione dei possidenti, e in particolare della nascente borghesia agraria. Perciò nelle rivolte si mescolano elementi più strettamente politici con altri in cui si possono già individuare le componenti del brigantaggio classico.
La seconda fase si colloca alla metà dell’Ottocento, dopo la ribellione anti-austriaca che partendo dalla Repubblica veneziana di Daniele Manin si estende nella terraferma. Breve esperienza, che lascia presto campo alla feroce restaurazione asburgica affidata a Radetzky. Qui il brigantaggio dilaga, con una forte componente di rivalsa sociale contro condizioni di sfruttamento selvaggio della gente delle campagne e di quella addetta ai lavori più umili e pesanti, come quelli nelle cave. E qui in molte situazioni finisce per crearsi una situazione di tacita alleanza tra banditi e povera gente; dove qualcuno dei primi viene visto come una sorta di Robin Hood indigeno, in qualche modo garante di una giustizia sociale di base: vittime del crimine sono i ricchi, i proventi spesso vengono redistribuiti almeno in parte tra i poveri.
Infine, la terza fase è quella del Novecento, che ruota soprattutto attorno ad una singolare figura di brigante, Giuseppe Bedin, alla testa di una banda organizzata e temibile che estende il proprio raggio d’azione all’intera alta Italia; con il suo capo che diventa protagonista di un’epopea popolare in cui la sua figura oscilla di nuovo tra quella di Robin Hood e quella di uno dei più temibili gangster americani, John Dillinger; sconfinando perfino in un accostamento a Che Guevara. Finirà male comunque, come molti dei suoi membri; alcuni dei quali peraltro durante la Resistenza si schiereranno con i partigiani.
C’è un tratto comune a questo viaggio di Selmin tra i briganti, ed è la ferocia della repressione, indicata del resto fin da quel titolo, “Ammazzateli tutti!”, che la dice lunga sulla risposta del potere. Solo un esempio, ma il più significativo: nel 1850 Este diventa il simbolo del fenomeno, con quello che verrà ribattezzato “il grande processo”, chiuso con oltre 400 condanne a morte e quasi 800 al carcere duro; presentando il conto a delinquenti veri e propri ma anche a figure minori. Un’azione di stroncatura purtroppo avallata anche da uomini di chiesa, come ricostruisce Selmin.
Una costante spicca lungo i decenni, ma è d’altra parte comune a tante analoghe situazioni in altri luoghi: in qualsiasi sistema fisico, se ci sono spinte centrifughe, è per la debolezza del centro. Quando le rivolte si estendono, è anche perché il potere si dimostra cieco, sordo, rigido, vorace, facendo degenerare l’autorità da autorevolezza ad autoritarismo. Allargando le disuguaglianze, e rendendole una polveriera. Una precisa lezione anche per il presente.
Strano destino. Neanche nel negativo il Veneto riesce a farsi prendere sul serio. Quintalate di studi e ricerche hanno approfondito il fenomeno del brigantaggio italiano, specie nel Mezzogiorno ma non soltanto; fermandosi comunque regolarmente davanti alle porte di casa nostra. Un esempio banale: perfino la popolarissima Wikipedia, nell’ampia voce dedicata alla questione, propone un dettagliato elenco di briganti famosi, che spazia in 13 delle 20 regioni italiane, dalla Sicilia al Piemonte; ma i veneti risultano del tutto assenti. Non figurano nel catalogo “grandi firme” del crimine come i Ghino di Tacco, i Salvatore Giuliano, gli Stefano Pelloni. E ci sarà magari un difetto d’origine addirittura semantico, visto che secondo gli esperti la parola “brigante” avrebbe una radice celtica che significa “altitudine”: gente insomma che scende dall’alto, dalle montagne, dove ha i propri covi. Non c’è posto nel gotha del brigantaggio per gli scalcinati veneti delle basse.
E invece è proprio da quel limbo di silenzio che li sottrae Francesco Selmin in un agile ma denso libro edito da Cierre: “Ammazzateli tutti! - Storie di banditi del Veneto”.
Storico di valore, padovano di Este, fondatore e direttore della rivista “Terra e Storia”, Selmin ha già all’attivo diverse pubblicazioni legate alla realtà veneta. In quest’ultima fatica ha analizzato il fenomeno lungo l’arco di un secolo e mezzo, dagli inizi dell’Ottocento alla seconda guerra mondiale, suddividendolo in tre grandi fasi che corrispondono ad altrettanti contesti storici e sociali.
La prima è quella che mette radici nel 1809, e ha tratti comuni ad altre parti d’Italia, specie nel Mezzogiorno. In Veneto è legata alle cosiddette insorgenze, sommosse popolari esplose in particolare dall’alto Vicentino al Polesine passando per la Bassa padovana, in un momento in cui la regione era in mano ai francesi. In queste sollevazioni collettive giocano motivi diversi, come giustamente spiega Selmin: la ribellione contro lo straniero, certo, ma anche contro una classe dirigente locale che era espressione dei possidenti, e in particolare della nascente borghesia agraria. Perciò nelle rivolte si mescolano elementi più strettamente politici con altri in cui si possono già individuare le componenti del brigantaggio classico.
IL CARABINIERE autore della cattura fu insignito di medaglia |
La seconda fase si colloca alla metà dell’Ottocento, dopo la ribellione anti-austriaca che partendo dalla Repubblica veneziana di Daniele Manin si estende nella terraferma. Breve esperienza, che lascia presto campo alla feroce restaurazione asburgica affidata a Radetzky. Qui il brigantaggio dilaga, con una forte componente di rivalsa sociale contro condizioni di sfruttamento selvaggio della gente delle campagne e di quella addetta ai lavori più umili e pesanti, come quelli nelle cave. E qui in molte situazioni finisce per crearsi una situazione di tacita alleanza tra banditi e povera gente; dove qualcuno dei primi viene visto come una sorta di Robin Hood indigeno, in qualche modo garante di una giustizia sociale di base: vittime del crimine sono i ricchi, i proventi spesso vengono redistribuiti almeno in parte tra i poveri.
i membri della banda Bedin divennero partigiani e si vendicarono ampiamente |
Infine, la terza fase è quella del Novecento, che ruota soprattutto attorno ad una singolare figura di brigante, Giuseppe Bedin, alla testa di una banda organizzata e temibile che estende il proprio raggio d’azione all’intera alta Italia; con il suo capo che diventa protagonista di un’epopea popolare in cui la sua figura oscilla di nuovo tra quella di Robin Hood e quella di uno dei più temibili gangster americani, John Dillinger; sconfinando perfino in un accostamento a Che Guevara. Finirà male comunque, come molti dei suoi membri; alcuni dei quali peraltro durante la Resistenza si schiereranno con i partigiani.
C’è un tratto comune a questo viaggio di Selmin tra i briganti, ed è la ferocia della repressione, indicata del resto fin da quel titolo, “Ammazzateli tutti!”, che la dice lunga sulla risposta del potere. Solo un esempio, ma il più significativo: nel 1850 Este diventa il simbolo del fenomeno, con quello che verrà ribattezzato “il grande processo”, chiuso con oltre 400 condanne a morte e quasi 800 al carcere duro; presentando il conto a delinquenti veri e propri ma anche a figure minori. Un’azione di stroncatura purtroppo avallata anche da uomini di chiesa, come ricostruisce Selmin.
Una costante spicca lungo i decenni, ma è d’altra parte comune a tante analoghe situazioni in altri luoghi: in qualsiasi sistema fisico, se ci sono spinte centrifughe, è per la debolezza del centro. Quando le rivolte si estendono, è anche perché il potere si dimostra cieco, sordo, rigido, vorace, facendo degenerare l’autorità da autorevolezza ad autoritarismo. Allargando le disuguaglianze, e rendendole una polveriera. Una precisa lezione anche per il presente.
Articolo de "IL MATTINO" 16 dic 2016
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