AGOSTINO E IL LUPO
Questa mattina sono andato a fare la mia solita camminata di un paio d’ore in montagna, anche se il tempo non prometteva nulla di buono. Infatti la nebbia copriva le cime e vagava tra i faggi del bosco, anche qualche rada gocciolina di pioggia mi avvertiva che sarebbe stata un’escursione bagnata. Ma io non mi faccio certo intimorire da questo. Anzi! L’autunno, insieme all’inverno, sono i miei periodi preferiti per andare in montagna. D’autunno tutto è tranquillo, passata la buriana estiva, il silenzio riempie boschi e cime. Quando poi la giornata è un po’ piovigginosa e le nebbie si rincorrono umide e fredde, tutto assume un fascino straordinario.
Il bosco con le sue luci ovattate, le cime col loro vedo non vedo, danno libero corso alla fantasia e ci fanno capire come sono nate tutte le leggende di montagna popolate di anguane e salbanei. Bisogna essere da soli, però, se si vuol veramente gustare il silenzio. Nemmeno le foglie a terra, umide di nebbia, fanno rumore sotto i nostri passi, e l’aria densa di umidità rende un po’ affannoso il respiro. La fantasia corre sfrenata e, legando assieme cinquant’anni di cammino tra i monti, dà vita a storie come quelle che una volta i nonni raccontavano ai nipotini durante la stagione fredda davanti al camino acceso, e nelle stalle di pianura mentre si faceva filò. Questa mattina mi è venuta in mente questa, e, se vi fa piacere, ve la vorrei raccontare. Oh, non aspettatevi granché, non sono uno scrittore, semplicemente vi voglio far perdere un po’ di tempo in compagnia.
Vagando com’era solito fare per boschi e cime, in ogni stagione dell’anno, specialmente durante la settimana quando tutti sono impegnati nel lavoro e, i più giovani, nello studio, Agostino una mattina d’inverno nel bosco coperto di neve stava risalendo il pendio con le ciaspole ai piedi.
Quando la neve copre il terreno si incontrano facilmente le orme di tutti quegli animali che popolano le montagne e che si spostano in cerca di cibo. La volpe col suo modo ondivago di camminare disegna sul bianco manto delle perfette serpentine, annusando a destra e a manca e cercando di scoprire qualcuno di quei piccoli roditori che, durante l’inverno, scavano interminabili gallerie tra la neve e la terra sottostante.
Le piccole orme degli scoiattoli, che vanno alla ricerca dei nascondigli dove hanno sotterrato durante la buona stagione le nocciole. Qualche raro uccello stanziale, così affezionato ai suoi boschi da preferir di patir la fame piuttosto che abbandonarli per la pianura. E poi le tracce dei camosci, re delle cime e delle pareti, mai stanchi di vagare, per il puro piacere di camminare per raggiungere un poggio panoramico e nulla più, proprio come facciamo noi che amiamo i monti.
Pur vedendole da una vita, queste tracce davano ad Agostino sempre una grande emozione,da inumidirgli gli occhi, perché sapeva che questi animali non avevano una casa calda come la sua per ritornare alla sera, né un letto accogliente e tiepido dove passare la notte al riparo dal gelo.
Lui lì era un ospite nella loro casa, che lui frequentava con gran rispetto, grato a loro di ospitarlo. Ma, quella mattina, c’era nell’aria qualcosa di diverso, che non riusciva a capire. E cercava di aguzzare i sensi per intuire di cosa si trattava. In verità, da quando aveva smesso di lavorare, e aveva ripreso a frequentare quotidianamente questi luoghi solitari, si era accorto che, pian piano, dentro di lui, provenienti dagli angoli più remoti del suo animo, si affacciavano e di giorno in giorno si rinvigorivano delle capacità primordiali di sentire cose ai più ignote.
Percepire la presenza di un animale immobile che lo osservava, sentire anticipatamente l’arrivo della pioggia, intuire un pericolo incombente. Ecco qualche esempio, ma non è facile spiegare tutto, era come se la sua anima si fosse dilatata molto al di là dei limiti del suo corpo, e gli avesse ridato delle capacità più simili a quelle di un camoscio che a quelle di un uomo.
Ma non ne parlava mai con nessuno, nel timore d’esser preso per matto. La neve caduta durante la notte era leggera come il borotalco, non faceva molta fatica ad avanzare lungo la traccia invisibile di un suo sentiero. Si, di un suo sentiero, diciamo così. In realtà i suoi sentieri erano i sentieri dei camosci, bestie dall’orientamento straordinario e dalla memoria inossidabile, che percorrono sempre la stessa traccia, anche quando è invisibile sotto la neve. Agostino aveva preso a seguirle e le teneva pulite dai rami secchi che cadevano dagli alberi, o dai sassi che rotolavano dall’alto.
Questo suo lavoro era molto apprezzato dai camosci, che ormai quando lo incontravano avevano imparato a riconoscerlo e lo salutavano con un cenno della testa, continuando il loro percorso o riprendendo tranquillamente a brucare l’erba senza paura. Ecco cosa c’era di diverso stamattina!
Nessun animale era ancora passato sulla neve fresca della notte, le uniche tracce che si intuivano erano le vecchie e profonde tracce dei camosci appena un poco ricoperte dalla neve fresca. Nessuna traccia recente. E un silenzio più silenzio del solito … Solo ogni tanto un piccolo rumore: un ramo si piega oltre il limite e scarica la neve fresca creando fantastiche cascate di cristalli illuminati da qualche raggio di sole che penetra tra gli alberi del bosco.
Avanti, avanti. Il respiro si fa un poco più affannoso.
Il sentiero aumenta la sua pendenza poco prima di uscire dal bosco, e Agostino non ha più vent’anni. Ma questo per lui non è un problema, semplicemente ogni anno che passa si impegna un poco più di tempo per fare un certo percorso, ma è nell’ordine delle cose. Del resto l’importante per lui è solo poter continuare a tornare tra i suoi monti ogni volta che lo desidera.
Ecco finalmente superato l’ultimo faggio si esce al sole sull’aperto Poggio della Panchina. Si chiama così perché Agostino, tanti anni fa, ha costruita una rustica panchina, con l’aiuto di Celestino il custode dell’Ossario, di legno di maggiociondolo, quell’albero che a fine maggio si copre di grappoli di fiori gialli. Qui da queste parti lo chiamano gegano, è un legno duro come il ferro e non marcisce mai.
Da qui si vede il fondo della valle con tutte le contrade e i paesi : Sant’Antonio,Valli del Pasubio, Torre e Pivebelvicino, Schio e poi la vasta pianura veneta, fino al mare che, nelle giornate limpide, si vede anche da qui. Ad occhio nudo si vede la laguna e il Mare Adriatico e, qualche volta, dalla cima del Cornetto è riuscito persino a vedere i monti della Croazia, una sottile striscia un poco più blu del blu del mare.
All’improvviso si arresta, proprio vicino alla Panchina molte orme fresche, sembrano di un grosso cane, ma sono talmente grandi che non possono essere di un cane. E poi, cani qui non ne ho mai visti. Ricordate quelle sensazioni di cui vi parlavo prima? Ecco, sono sicuro che qualche animale mi sta osservando, dev’essere dietro di me, al limitare del bosco. Ma non mi voglio girare in fretta, per non spaventarlo e farlo scappare.
Adesso mi tolgo lo zaino e lo appoggio sulla panchina, dopo averla pulita dalla neve, e, senza aver fretta bevo un bicchiere di the caldo dal termos, tanto lo sento che lui è lì e continua a guardarmi, ad osservare quel che faccio. So che lui ha i sensi più sviluppati dei miei, so che è in grado di capire se ho paura o se sono tranquillo, e io non voglio metterlo in allarme, voglio solo che continui ad osservare con curiosità quello che sto facendo. Con il bicchiere fumante in mano mi siedo sulla Panchina, rivolto verso dove so che lui è nascosto. Di sottecchi cerco di capire dov’è, e finalmente una nuvoletta di vapore del suo fiato illuminata dal sole mi ha rivelato la sua posizione.
Anche il mio corpo sudato dalla fatica della salita fuma nel freddo della mattina invernale. Certo non è una volpe, sembra un grosso cane lupo, ma non è un cane, è proprio un lupo. Abbassa ogni tanto il muso, lo piega da un lato come per osservarmi meglio. E’ molto magro, sicuramente avrà fame. Non ho niente da lasciargli e del resto so che non si fa: gli animali selvatici non devono imparare a ricevere cibo dagli uomini, è pericoloso per tutti e due.
La mia attenzione viene attratta dal verso acuto ed insistente che viene dall’alto: una coppia di poiane volteggia pigramente disegnando anelli concentrici in verso uno contrario all’altro. Mi sono distratto un attimo, e tanto è bastato. Il lupo non c’è più.
Ritornato dentro il bosco ha ripreso il suo cammino. Chissà da dove viene, dove va. Sarà un lupo appenninico o verrà dalla Slovenia? Forse andrà a raggiungere quel suo parente che già anni fa è passato di qui, proprio dalla Panchina, ed ha proseguito il suo viaggio fino a giungere nell’altopiano veronese della Lessinia. Lì ha messo su famiglia con una lupa italiana, ed ha generato diversi lupacchiotti ormai diventati adulti, che danno tanti dispiaceri a pecorai e malgari.
Ecco se dovessi rinascere vorrei essere un lupo, o un camoscio.
La prossima volta.
Non sono stato tanto contento d’essere un uomo. Questa è una razza che non rispetta nessuna regola, non c’è da essere contenti di farne parte. Come dicevano i latini . “homo homini lupus”. La tentazione sarebbe quella di seguire le sue tracce, ma non lo farò.
Per prudenza e per rispetto del lupo.
Buon viaggio amico e che la fortuna ti sia propizia! Non mi resta che scendere alla macchina e ritornare a casa. Una doccia calda e un piatto di zuppa bollente. Forse sono più fortunato del lupo..
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