NEL 1920: VENETO BUBBONE D'ITALIA, PER ROMA CHE RUBAVA SUGLI AIUTI


Le enormi devastazioni subite dalle terre venete a causa della prima guerra mondiale, furono la causa prima del collasso economico della prima metà del 900, della fame e disperazione nelle campagne, che i nostri nonni (per chi ha origine contadina più o meno lontana) ci han raccontato.

Vi era stato un periodo di crisi simile nell’800, con l’annessione italiana delle nostre terre, che portò solo fame e miseria, ma grazie alla tipica tenacia della nostra gente, a poco a poco, quelli che non emigrarono avevano, agli inizi del 900 rimesso in moto i settori produttivi, da sempre l’agricolo e il tessile. L’arrivo del ciclone immane e devastante della Guerra ci aveva messo di nuovo in ginocchio, peggio di prima, il risarcimento danni promesso era stato in gran parte sperperato (ben tre miliardi di allora) nella corruttela o per pagare in seguito lavoratori e imprese provenienti da altre regioni, mentre i locali soffrivano di una disoccupazione estrema e così l‘11 settembre del 1919 sulla Gazzetta Trevigiana si scriveva:

.
.
Noi Veneti, che siamo forse un po’ particolaristici e, forse per tradizione storica, siamo un po’ abituati alla nostra caratteristica fisionomia regionale, cominciamo a credere di essere dimenticati dal resto dell’Italia, dimenticati dagli Italiani. Dalla guerra che ha sconquassato il Veneto si ricorda Vittorio Veneto, si ricorda il Piave, sulle cui rive fu salvata al Patria. Ma il Veneto campo di battaglia della guerra sterminatrice è un’immagine lontana: le sue rovine, le sue sventure, la crisi di spirito che lo travaglia, la miseria che lo insidia, sono cose ignote al resto d’Italia (…)E così noi abbiamo sentito scendere sui nostri dolori, e sulle nostre sventure (…)a poco a poco l’indifferenza e l’oblìo. E in genere -quando se ne parla- sentiamo parlare delle cose nostre con la tranquilla indifferenza di chi crede che ormai nel Veneto tutto sia stato sanato e medicato, tutte le piaghe rimarginate (…). Anche il “Popolo Romano” ha delle cose una visione rosea (…). Questo scrittore non ha visto ad esempio la vastissima zona del Lungo Piave, di desta e di sinistra. Non ha visto che in essa i campi sono tutt'altro che coltivati perché mancano i buoi e gli strumenti di lavoro e perché i campi continuano a celare ad ogni passo insidie di morte.


Che la popolazione vive agglomerata spaventosamente in baracche, dove abitano insieme parecchie famiglie, in una promiscuità spaventevole, dove si fa di tutto, dalla cucina alla cura del pollaio. Che la gente tornata non trovando più casa, mentre splendeva il cielo sereno e il clima era mite, s’è rassegnata a farsi casa di una tenda e poche frasche, di raccolti rottami, ma ora che l’inverno è alle porte, se non vorrà morire, dovrà riprendere la via dell’esilio. Che vi sono paesi, un tempo saluberrimi, ora invasi dalla malaria: che la dissenteria infierisce e la mortalità vi è eccezionale. Che vi sono rovine di case in cui famiglie intere, non protette né riparate dalla piova e dalle vicende atmosferiche, intristiscono miseramente. Che i rifornimenti scarseggiano e manca spesso il pane. Che l’igiene pubblica è assolutamente dimenticata. Che certi paesi non hanno più nulla: né case, né botteghe, né chiesa (…) Tutta quella povera gente ha perduto la fede ed è scoraggiata, avvilita e non può lavorare. Sì, dove ha potuto l’operosa gente veneta, si è messa a lavorare. Ma vi sono troppi luoghi dove non ha potuto. Sì, i campi biondeggiano, ma vi sono territori sterminati e un dì fertilissimi, dove quest’anno non è stato seminato un chicco di frumento”.
Continua Bruno Pederoda:
 "A neppure un anno di distanza dalla fine di quel immenso conflitto il regime costituito era riuscito a mettere la sordina ai suoi aspetti più angosciosi e a disfrenarsi nell’esaltazione dell’immaginario (della Vittoria, nota mia). Poi venne il fascismo e perfezionò la dose di narcotico con il risultato che lo stesso Veneto, il quale aveva provato nel più profondo della sua carne le atrocità della guerra, scordò lo strazio, a poco a poco.
Garriscono oggi al vento i tricolori, esplodono come ieri i vulcani della retorica, si strumentalizzano i fatti del passato forzandoli a sostenere più recenti vicende, i battimani si sprecano, la verità, mortificata, si rifugia in un angolo.

“Tra macerie e miserie di una regione dimenticata” di Bruno Pederoda ed. Piazza pagg. 149-150

Commenti

  1. Ma perché siamo così buoni e pazienti? No. La realtà è che siamo, ora più che mai, rassegnati.

    RispondiElimina

Posta un commento