LA DOGANA DI VERONA, FATTA QUASI A DISPETTO DI VENEZIA

Scipione Maffei, esponente tra i più prestigiosi dell'aristocrazia veronese, nella prima metà del Settecento, propose al vecchio governo della Serenissima un Consiglio politico in cui prospettava un regime parlamentare rappresentativo dei cittadini su modello di quello inglese. E quello, aveva ragione l'aristocratico preveggente, era lo sbocco inevitabile, se Napoleone non avesse distrutto Venezia e venduto la libertà dei Veneti all'Austria. 
C'era quindi tra l'élite di Verona e della Terraferma un'aria di fronda specie verso la  metà de Settecento, in cui si inquadra la costruzione e il conseguente conflitto, tra il governo centrale e il governo locale, che qui riportiamo. E che costò all'erario veneto ben 36mila ducati al posto dei 12mila previsti.
Ringrazio il veronese Lorenzo Magnabosco per la segnalazione. 

Nell'anno 1746 si avvia al termine a Verona, alle spalle della Basilica di San Fermo, la costruzione della nuova dogana di terra. Iniziata appena l'anno precedente, è stata costruita a tempo di record. 

Ma il suo completamento, lungi dal rappresentare un momento di festa, segna l'esplodere di una polemica che vede contrapposte la suddetta Verona e la Repubblica di Venezia. Motivo del contendere, lo spirito secondo il quale Verona ha progettato e costruito l'edificio pubblico: una mai troppo celata insofferenza alla dominazione veneziana, sta volta uscita decisamente allo scoperto. Un atteggiamento che, ovviamente, la Dominante non poteva accettare passivamente: di qui un'aspra contesa che, per la Serenissima, si sarebbe conclusa con una vittoria dal sapore amaro. 

Ma andiamo con ordine, ricostruendo innanzi tutto le vicende che portarono alla necessità oggettiva, per Verona e per la Repubblica del Leone, di disporre di un nuovo punto di sdoganamento e di controllo sanitario delle merci che viaggiavano via Adige. La città scaligera, da secoli nodo di vitale importanza per il commercio, aveva conservato tale ruolo primario anche in età veneziana. Eccezionale era l’importanza della via fluviale dell'Adige, corso d'acqua navigabile quasi per intero: per la sua posizione privilegiata sulle rive di questo fiume, Verona era diventata un punto d'accesso di fondamentale importanza per le merci che entravano nel territorio della Serenissima. E il suo ruolo divenne ancor più determinante dopo che, in seguito alla scoperta dell'America, i grandi traffici marittimi si andarono via via spostando verso le acque dell'Atlantico, portando ad una consistente riduzione dell'importanza di Venezia. Proprio l'Adige, infatti, divenne una via di comunicazione privilegiata nei traffici fra l'area mediterranea e il nord delle nascenti potenze commerciali, Inghilterra ed Olanda. 
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E' in tale contesto che si colloca l'edificazione della Dogana di San Fermo. Dopo questi ultimi avvenimenti, infatti, i mercanti continuarono a premere presso il Consiglio Cittadino perché fosse loro concesso un nuovo ambito dove svolgere le proprie attività. Si decise allora di provvedere alla costruzione di un nuovo edificio, dove la Serenissima contava di concentrare il controllo di tutte le merci in transito. Alla sua realizzazione fu destinato un terreno nei pressi della basilica di San Fermo, acquistato dai padri dell'omonimo convento. Ma in brevissimo tempo, il Consiglio della città di Verona trasformò quella che doveva essere un'iniziativa di carattere puramente funzionale in un'operazione dal chiaro significato politico. 

Per gli edifici di carattere pubblico, Venezia aveva stabilito che fossero seguiti criteri di semplicità e praticità, escludendo «pompa e magnificenza». Una direttiva da seguire soprattutto nell'edificare una dogana, «per eccellenza - scrive ancora Arturo Sandrini - luogo del potere istituzionale veneziano, dispositivo di controllo gelosamente custodito, ingranaggio di una macchina fiscale caratterizzata da un rigore quasi persecutorio nel reperimento delle entrate».


persa la libertà, da noi mancò un Goya a descrivere la disperazione dei popoli italiani occupati dai francesi
 


Ma il Consiglio Cittadino di Verona ignorò del tutto queste disposizioni. Tra i progetti presentati, infatti, fu scelto quello del conte Alessandro Pompei, che aveva proposto un edificio grandioso, nelle forme e anche nei costi: la nuova dogana si sarebbe sviluppata attorno ad un cortile rettangolare, con un peristilio con porticato a due piani sui lati minori e ad uno solo, dalle colonne altissime, sul lato prospiciente all'ingresso. Iniziata all'insaputa di Venezia, la costruzione fu condotta a tempo di record, tra il 1745 e il 1746: e subito dopo la sua conclusione, divamparono le polemiche. 

La ferocissima critica delle autorità veneziane arrivò puntuale. In primo luogo, fu ritenuta inopportuna la strutturazione dell'edificio: assurda la disposizione su due piani, che rendeva molto difficoltoso lo stivaggio delle merci; troppi piccoli ambienti, e nessun grande magazzino, a significare praticamente una "presa di possesso" da parte dei privati di un edificio che nasceva come struttura pubblica. Letteralmente stroncato il porticato aperto, inadatto alla conservazione delle merci, che rimanevano esposte alle intemperie. Inaccettabile l'esistenza di una Cappella: inutile e inopportuna, inserita nel progetto, a detta dei veneziani, solo per permettere l'apertura domenicale della Dogana, e dare quindi vita a commerci illegali. 
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Ma forse quello che più urtò fu la "superbia" della città di Verona, espressa in un'iscrizione subito censurata dalle autorità veneziane. Sulla fronte del grande portico campeggiavano, infatti, le insegne della città, e la scritta «Extraneis mercibus tutius ac commodius reponendis distrahendisque civitas veronensis a solo fecit»: si rivendicavano in questo modo la proprietà ed il merito dell'edificazione (solo fecit), senza neppure accennare alla Serenissima o al fatto che la fabbrica fosse pagata con denaro pubblico. 

Tanto più che Verona non si era limitata a questo: si era anche data un nuovo regolamento daziario che le concedeva (come riporta ancora Arturo Sandrini) «un sommo et intiero esercizio di autorità e di dominio per gravissime ragioni incompetente, inusitato e pericoloso, con grave pregiudizio dell'universale giurisdizione, indipendenza e autorità della Repubblica». Altre dogane avrebbero potuto pretendere la stessa autonomia: e per la Repubblica del Leone sarebbero stati guai. 
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Scipione Maffei, l'aristocratico veronese che propose di riformare lo stato veneto su modello inglese
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Per i Veneziani, al danno seguì la beffa: perché l'unico modo per riprendere in mano le redini della situazione fu di farsi carico delle spese sostenute da Verona (ben 36.000 ducati contro i 12.000 preventivati), riappropriandosi così indiscutibilmente della nuova Dogana. 
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Per gli edifici di carattere pubblico, Venezia aveva stabilito che fossero seguiti criteri di semplicità e praticità, escludendo «pompa e magnificenza». Una direttiva da seguire soprattutto nell'edificare una dogana, «per eccellenza - scrive ancora Arturo Sandrini - luogo del potere istituzionale veneziano, dispositivo di controllo gelosamente custodito, ingranaggio di una macchina fiscale caratterizzata da un rigore quasi persecutorio nel reperimento delle entrate».
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Dogana vecchia interno del cortile
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Ma il Consiglio Cittadino di Verona ignorò del tutto queste disposizioni. Tra i progetti presentati, infatti, fu scelto quello del conte Alessandro Pompei, che aveva proposto un edificio grandioso, nelle forme e anche nei costi: la nuova dogana si sarebbe sviluppata attorno ad un cortile rettangolare, con un peristilio con porticato a due piani sui lati minori e ad uno solo, dalle colonne altissime, sul lato prospiciente all'ingresso. Iniziata all'insaputa di Venezia, la costruzione fu condotta a tempo di record, tra il 1745 e il 1746: e subito dopo la sua conclusione, divamparono le polemiche. 

La ferocissima critica delle autorità veneziane arrivò puntuale. In primo luogo, fu ritenuta inopportuna la strutturazione dell'edificio: assurda la disposizione su due piani, che rendeva molto difficoltoso lo stivaggio delle merci; troppi piccoli ambienti, e nessun grande magazzino, a significare praticamente una "presa di possesso" da parte dei privati di un edificio che nasceva come struttura pubblica. Letteralmente stroncato il porticato aperto, inadatto alla conservazione delle merci, che rimanevano esposte alle intemperie. Inaccettabile l'esistenza di una Cappella: inutile e inopportuna, inserita nel progetto, a detta dei veneziani, solo per permettere l'apertura domenicale della Dogana, e dare quindi vita a commerci illegali. 

il magnifico edificio, onore di Verona 
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peapprofondire verona/dogana-di-san-fermo/

NdR. Verona però è la stessa che si proclamò "Fidelis", pochi decenni dopo, ai valori marciani e allo stato veneto la cui élite voleva riformare e non distruggere. Tanto che un discendente del Maffei, Antonio, capitanò la rivolta contro i barbari occupanti francesi e fu da questi "giustiziato" sotto Porta Nuova. 

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