LA DOTA (la dote) DELE NOSTRE NONE



Una “dota” di quei tempi.

Di Piero Piazzola

Quando una ragazza trovava un fidanzato e v’era la certezza quasi assoluta che sarebbe andata all’altare con lui, cominciava a prepararsi la dote, la cosiddetta dota. E la dota la preparava nei tempi convenienti: di sera: in casa o in stalla, durante la giornata: nei ritagli di tempo. Ci lavorava anche di domenica, dopo essere stata alla Messa del mattino — la prima, quella che frequentavano le donne, perché dopo esse dovevano restar a casa a preparar da mangiare e a dare il cambio agli uomini per la messa seconda — e al Vespero, nel pomeriggio. Tuttavia non si creava tante illusioni la futura sposina, perché la consistenza della dote era piuttosto contenuta, misera.

Ecco un elenco incompleto di capi di dota che una sposa dell’Alto Vicentino portò con sé quando si maritò: 1 cocietta di nogara (lettino); 1 caldiero da liscia (mastello da bucato); 1 paio lenzuoli canapa; 3 camicie lino; 2 camicie usate; 2 bustine usate; 3 cottole in sorte; 3 abiti in lana in sorte; 1 veleta; 1 sciallo; 8 paia calze; 1 materasso a penna; 1 coperta operaia; 1 armadio noce; 1 pontapetto oro; un pajo buccole oro. Ma questa era già una dote … di classe.



Bisogna tener presente, per inciso, che nell’elenco delle spese del matrimonio era necessario aggiungere anche quelle del sacerdote per la celebrazione delle nozze, dei campanari per l’accompagnamento con le campane a distesa durante il tragitto da casa della sposa alla chiesa e poi nei momenti più importanti della messa. Bisogna anche ricordare che in taluni paesi, era fatto obbligo allo sposo di donare al parroco un fazzolettone rosso, come quello che usavano quelli che tabaccava, e alla futura suocera un paio di pianele (babbucce). Varrebbe sicuramente la pena di riferire anche i sinonimi dialettali con cui veniva soprannominata spiritosamente — ma sotto sotto v’era la cruda realtà della miseria — la dote: la pégora, i puldi. “Pègora”, perché talora era tanto misero il volume della dote che si poteva avvolgere in una pelle di pecora; “puldi” (pulci), perché le cose che stavano per tanto tempo ad aspettare il dì del matrimonio, rischiavano di diventarvi “alloggio” di pulci. 
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Quando tutto era pronto per il trasferimento della dote a casa dello sposo, qualche giorno prima del matrimonio e di sera, il futuro marito, el noìsso, arrivava a casa della sposa con un cavallo e la grója  (carretta per il trasporto del fieno, senza sponde) o con un carretto se di “buona” casa, caricava il tutto e, accompagnato da lei o dalla madre, la portava a casa propria. El noìsso, da parte sua, come volevano le tradizioni, doveva badare al comò, più conosciuto come armàro, al mobilio della camera nuziale; mobilio che si riduceva in due cavalletti di legno, con delle tavole per sostenere i materassi de scartòssi, sopra i quali v’erano quei de péna (penna possibilmente di oca), un attaccapanni ricavato da certi rami contorti di piante e fermato alle travi; due sedie impagliate, un buféto (comodino), una cassapanca.

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