Condizioni del lavoro, l'inquinamento e la salute




COME SI LAVORAVA A MARGHERA

 Non sono passati neanche 60 anni, invece sembrano il doppio.


Nel centenario della fondazione di Marghera e del suo porto dobbiamo avere il coraggio di tramandare ai nostri nipoti lo scempio che l'uomo, per il denaro e per il potere, è riuscito a fare all'ambiente sulla pelle di lavoratori e residenti.



Alla Montecatini fertilizzanti l’operazione di riempire i sacchi del concime veniva dato in appalto a ditte esterne essendo considerata pericolosa per i dipendenti.
Alla Sava i forni che producevano alluminio e allumina erano disposti nei capannoni su quattro file, in un ambiente in cui le temperature raggiungevano i 70-80°C, essendo il punto di fusione dell’alluminio a 1200 gradi. Gli addetti non avevano molte protezioni, la loro tutela era affidata al caso e all’ingegno personale.
Gli operai lavoravano direttamente sopra il forno essendo costretti, per prelevare il metallo, a rompere con delle barre la superficie solida che si formava. Questo procedimento provocava pericolosi schizzi di alluminio incandescente.
I martelli pneumatici, al posto delle barre per spezzare la superficie solida, furono introdotti solo nel 1955. Comunque il calore e il carico di lavoro provocavano un elevato numero d’infortuni e malattie come pleuriti, bronchiti, polmoniti, eczemi e reumatismi. 
Incendio agli impianti (sopra e sotto)

 Alla Vetrocoke Azotati il lavoro era particolarmente pericoloso a causa dell’uso del gas ad alta pressione in alcuni reparti; qui gli operai lamentavano continui dolori.
Le peggiori condizioni ambientali erano quelle del Petrolchimico dove il lavoro veniva svolto senza alcuna protezione, in ambienti poco aerati, angusti, pieni di fumo e con temperature molto alte. Sempre con il rischio di fughe di gas. Mercurio e cloro allo stato gassoso venivano respirati non essendo previste maschere antigas o cappe aspiranti. Molti lavoratori soffrivano di eruzioni cutanee, dovevano operare in mezzo ai campi elettro-magnetici, inoltre il fumo dall’inconfondibile cattivo odore e dal colorito giallognolo che usciva dai camini provocava eritemi ed eruzioni cutanee anche a distanza di anni.
Fuga dai gas
Il Cvm (cloruro di vinile monomero), una delle produzioni principali del Petrolchimico, è un gas incolore e dolciastro, i cui danni all’organismo andavano dal calo del desiderio sessuale al tumore al fegato, l’angiosarcoma epatico; se respirato a concentrazioni alte provocava alterazione dello stato psicofisico, tanto che esisteva, nel gergo operaio, la “sbronza” da Cvm. Ma la voce che fosse usato negli ospedali, per anestetizzare i pazienti, rassicurava i lavoratori. Il Cvm aveva anche la proprietà di raffreddare e d’estate non era raro che fosse utilizzato per tenere al fresco angurie e lattine di birra. Negli anni ’50-‘60 non si parlava di concentrazioni limite di gas e vapori nel luogo di lavoro, e gli operai dovevano svolgere mansioni a diretto contatto con il Cvm/Pvc nelle diverse fasi del ciclo produttivo: nei reparti di produzione del Cvm e del suo stoccaggio; nei reparti di polimerizzazione del Cvm e di essiccamento del Pvc; nella trasformazione del Pvc; nello stoccaggio, insaccamento e spedizione del Pvc.
Le condizioni del reparto di polimerizzazione in emulsione, il Cv6, dove il cloruro di vinile veniva trasformato in Pvc, (la plastica più comune) erano estremamente dure. Gli operai avevano pure il compito di eseguire la pulizia interna delle autoclavi e quando gli addetti vi si calavano dicevano che “andavano nel ventre perfido di queste balene per grattargli la pancia”. Lavoravano per ore a temperature elevate tra polvere e gas, armati di mazza e scalpello per scrostarne le pareti, sospesi come burattini alle funi di sicurezza. Quando uscivano dalle autoclavi o dai reparti erano ricoperti di una finissima polvere bianca che provocava irritazioni agli occhi e alle vie respiratorie.
Negli anni sessanta nei reparti dove veniva lavorato il Cvm iniziò a diffondersi il morbo di Reynaud (sclerosi precoce detta delle ‘mani bianche’, che rende fredde le estremità delle articolazioni).
Usando un linguaggio tecnico, quella petrolchimica era un’industria ad alta intensità di capitale e a “bassa intensità di lavoro” in quanto a fronte di elevati investimenti per avviarla serviva un ridotto numero di personale rispetto ad altre aziende meccaniche o tessili.
I livelli di concentrazione di Cvm negli anni ’80 calavano, non certo per la volontà del nuovo management attraverso la manutenzione o l’ammodernamento dei reparti ma per la riduzione del personale o per il ricorso alla cassa integrazione.
Fin dai primi anni settanta le cronache locali raccontavano di ricorrenti esplosioni di serbatoi adibiti allo stoccaggio di Pvc, fughe ed emissioni di Cvm, ammoniaca, fosgene (prodotto asfissiante altamente pericoloso) ed altre sostanze chimiche ma col passare del tempo lo stato degli impianti e dei luoghi di lavoro peggiorava giorni dopo giorno per la mancanza di manutenzione. Paradossalmente, in fabbrica tutto continuava come prima, mentre miglioravano le conoscenze sulle patologie causate da Cvm/Pvc.
Il crollo degli standard di sicurezza e ambientali, rispetto alle nuove tecnologie che arrivavano sul mercato, fu provocato dalle scelte di non fare manutenzioni.
Lo smaltimento dei rifiuti chimici, da sempre bruciati nelle centrali termoelettriche del petrolchimico e poi scaricati nelle aree interne o nelle discariche in terraferma, assunse aspetti drammatici anche perché i rifiuti liquidi, circa 20.000 tonnellate all’anno, venivano direttamente riversati in laguna.
Il dossier “Morte a Venezia”, pubblicato nel 1995 da Greenpeace e realizzato con la collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità, denunciò per la prima volta il rischio diossina nella laguna di Venezia, la cui concentrazione nel canale vicino al petrolchimico era doppia rispetto quella del fiume Reno.
Effetti dei fanghi rossi

CLIMA DI LAVORO
Fino al 1925, anno in cui vennero soppresse a seguito del patto Vidoni, le Commissioni interne rappresentavano gli operai, un organismo unitario elettivo nato nei primi anni del Novecento. Dal 1943 il loro ruolo fu quello di vigilare sul rispetto dei contratti di lavoro e sulla salvaguardia dei diritti acquisiti, ma non avevano alcun potere nelle contrattazioni.
Nel 1945 arrivano le prime rivendicazioni, con uno sciopero generale che bloccò quasi tutte le aziende di Marghera, ed ebbero come principale obiettivo l’aumento salariale e l’adeguamento al costo della vita.
Per tutti gli anni Cinquanta, al Petrolchimico vigeva un clima di intimidazione volto a limitare ogni forma di rivendicazione e di lotta e le libertà sindacali erano assai limitate. I testimoni raccontano che ex poliziotti ed ex guardie carcerarie, chiamati “capo bastone”, controllavano i reparti, oltre che il perimetro degli stabilimenti. L’azienda utilizzava modi un po’ particolari di vigilare sulla condotta dei dipendenti: ai lavoratori zelanti toccavano “omaggi” che il sindacato della Cgil definiva “premi antisciopero”; a coloro che invece avevano lavorato in modo “inferiore al normale” venivano inviate lettere di ammonizione. 
Manifestanti in sciopero riuniti a Ca'Emiliani
Nel marzo 1950 ai cantieri Breda si aprì una lunga e drammatica fase di scioperi e occupazioni per protestare contro i licenziamenti realizzati dall’azienda a seguito della crisi dovuta alla fine delle commesse belliche. In quell’occasione la polizia sparò sui lavoratori, avvenimento raccontato con ricchezza di particolari da Il Gazzettino e dall’Unità.
All’Ilva, nel 1953 ad esempio, alcuni operai vennero licenziati perché avevano fatto entrare dei rappresentanti sindacali, ai quali, inoltre, era vietato affiggere volantini o manifesti negli ambienti di lavoro o circolare liberamente tra i reparti.
Inoltre gli attivisti sindacali erano emarginati e isolati all’interno della fabbrica e in alcune situazioni potevano essere licenziati.

Nel complesso gli anni Cinquanta vanno considerati come anni di debolezza delle lotte operaie e del movimento sindacale; i risultati ottenuti non sono stati di grande rilievo, sia sotto il profilo della difesa dell’occupazione (i licenziamenti furono particolarmente pesanti a causa delle ristrutturazioni tecnologiche) sia del miglioramento delle condizioni lavorative (orari, salari).

ORARI LAVORO
Alla Vetrocoke, per tutti gli anni ‘50 si lavorò 42 ore settimanali (con 4 ore di recupero), con un riposo settimanale di 24 h; il sistema dei turni fu modificato di modo che il giorno di riposo cadesse solo ogni due mesi lavorativi.

PROTEZIONI USATE
Gli operai usavano per controllare le fughe dei gas delle gabbiette contenenti dei cardellini e se questi morivano era il segnale che dovevano scappare all’aperto.
Il calore prodotto dai forni della Sava, dove si produceva l’alluminio, era tale da obbligare gli operai a spalmarsi sul viso la vaselina per proteggersi dalle ustioni. 


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