LA PRIMA PARLATA ITALIANA SCRITTA ERA IN REALTA' VENETA


Questo articoloprend e spunto dal post comparso ne la pagina de 
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Avrete sentito nominare l'indovinello veronese, trovato a margine di un codice latino del VIII secolo. Ebbene, gli studiosi da anni si accapigliano per stabilire se si tratta di latino con influenze veronesi o di parlata veneta veronese con qualche deformazione latina. 
Nell'articolo che ho ripreso dal bel sito Veja.it di un "caro amigo" è spiegato tutto, anche che nel IX secolo, a Capua,  scrissero qualcosa che somigliava più al volgare... Ma nessuno nomina la lapide di Aquileia, del IV secolo (addirittura) in cui una vedova fece incidere per il marito CO VOL DEONI (co vol Dio, Pì VENETO DE CUSSì!) e Deoni è ancora usato a Caorle, mi dicono, ed è pure diventato un cognome locale, che porta con orgoglio una mia amica.

separebabouesalbaprataliaaraba&alboversoriotenebae&negrosemenseminaba gratiastibiagimusomnip[oten]ssempiterned[eu]s

 Se pareba boves, alba pratalia araba
Albo versorio teneba, et negro semen seminaba.
Gratias tibi agimus onnipotens sempiterne Deus.

 L’Indovinello veronese è un testo in corsiva nuova vergato tra l’VIII secolo e l’inizio del IX in forma d’appunto, a margine di una pergamena contenente un codice più antico[1].

Interpretazione

Se pareba boves, alba pratàlia aràba
et albo versòrio teneba, et negro sèmen seminaba

 Traduzione

Teneva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati,
e un bianco aratro teneva e un nero seme seminava

Soluzione dell’indovinello

 Teneva davanti a sé i buoi
-le dita della mano.
arava bianchi prati
-le pagine bianche di un libro.
e aveva un bianco aratro
–la penna d’oca, con cui si era soliti scrivere.
e un nero seme seminava
–l’inchiostro, con cui si scrivono le parole.

 Se ne deduce dunque che la soluzione finale dell’indovinello sia lo scrivano, nell’atto di iniziare il suo lavoro (i bianchi prati).

Origini

Fu rinvenuto da Luigi Schiaparelli sul recto della pag. 3 del codice LXXXIX custodito nella Biblioteca Capitolare di Verona nel 1924[3]. Il codice è di provenienza spagnola, sicuramente di Toledo, poi portato a Cagliari, in seguito a Pisa, prima di raggiungere Verona.

Che la mano che lo ha vergato fosse veronese, probabilmente di un amanuense della stessa Capitolare, è stato attestato da un esame filologico che dimostra la presenza di tratti tipici del dialetto veronese (come versorio = aratro e i verbi all’imperfetto indicativo in -eba invece dell’-aba o -ava di altri dialetti).

La forma stilistica, secondo la dimostrazione di Monteverdi, è quella di una coppia di esametri caudati. Molto probabilmente si tratta di una “prova di penna”.

Il testo dell’Indovinello è seguito da un breve formula, vergata da un’altra mano, che recita: “Gratias tibi agimus omnipotens sempiterne Deus“, cioè “Ti ringraziamo, Dio onnipotente ed eterno”.

 Significato

È una testimonianza autoreferenziale, vale a dire la descrizione dell’atto dello scrivere da parte dello stesso amanuense. Si tratta di un indovinello comune alla letteratura tardo-latina, e rimanda a quattro diverse interpretazioni, delle quali la prima è la più diffusa e condivisa. Le interpretazioni partono dal significato del primo sintagma se pareba:

▪ Se da SIBI latino (dativo di vantaggio) e quindi traducibile in davanti a sé e pareba da PARARE latino con un significato più specifico spingere/tirare avanti (significato localizzato nel volgare nord-orientale): “tirava davanti a sé (un paio di) buoi / arava prati bianchi / guidava un aratro bianco /seminava un seme nero.”

▪ Se da SIC latino: una variante a tale traduzione del Bruni et al. fu presentata da Migliorini, secondo il quale il “se pareba” sarebbe da rendere “ecco, si vede”, sul modello di autori medievali come Dante (quando egli dice: “qui si parrà la tua nobilitate” | “qui si vedrà la tua nobiltà” ecc.). Questa interpretazione parte dall’osservazione del se clitico e dall’infrazione della cosiddetta legge Tobler-Mussafia (un testo volgare non presenta mai la successione del clitico al verbo ad inizio periodo): secondo la legge infatti il testo dovrebbe cominciare con Parebase.

 Dal latino al volgare

È indubbio che l’Indovinello segna un punto di svolta cardinale nella trasformazione del latino in volgare. Cadute la maggior parte delle declinazioni latine originali, lo scritto ha già il sapore del dialetto locale. Molti studiosi l’hanno dunque collocato in un’età di mezzo, quasi parafrasando quello che dovette essere il Medioevo. Ma solo nel Placito capuano e negli altri Placiti cassinesi, che risalgono al 960-963 d.C., si rinviene una scrittura quasi del tutto libera da declinazioni e dalla sintassi latina. È però indiscutibile che i segni più vistosi della trasformazione del latino in volgare sono già ravvisabili nell’Indovinello.

 Primo volgare o tardo latino?

Dopo un entusiasmo generale per il ritrovamento, i critici si sono divisi sull’ipotesi che affiderebbe a questo documento la nascita della lingua italiana. Responsabili di questi dubbi, avanzati già da Migliorini, sono i caratteri tardolatini che non mostrerebbero ancora un volgare “maturo” affrancato dalla vecchia lingua. Si pensi alla declinazione in -eba e in -aba, in cui la b non è ancora diventata v, al semen che è un nominativo/accusativo latino. Ciò che induce a guardare al volgare è la mancanza della -t finale nei verbi (si dice appunto pareva, arava ecc. in italiano), l’aggettivo negro (e non nigrum come vorrebbe il latino), in pratica già italianizzato per la -o finale e la trasformazione di i breve > e (é chiusa), mentre la -es di boves sarebbe da attribuire non direttamente al latino, bensì ad influenze ladine, data la collocazione geografica di Verona. Albo è precedente all’introduzione del Germ. blank > it. bianco fr. blanc ecc. nel mondo tardo-latino e può essere considerato un volgare molto arcaico. Notiamo ancora albo versorio in -o, come appunto vuole l’italiano ovvero il dialetto. Carlo Tagliavini, in Le origini delle lingue neolatine, ipotizza un’origine dotta con connotazione semivolgare, proveniente da ambienti scolastici ecclesiastici, nei quali gli alunni chierici utilizzavano come mezzo di comunicazione una lingua latina sgrammaticata e con molte incertezze lessicali. Ciò spiegherebbe perché nello stesso testo convivono latinismi e volgarismi. Arrigo Castellani, in I più antichi testi italiani: edizione e commento, ritiene anch’egli che il testo abbia un’origine dotta, ma che quella giunta sino a noi sia una testimonianza del latino medievale e non del volgare. Un altro studioso che avalla la tesi del semi-volgare è Vincenzo De Bartholomaeis. Giovanni Tamassia e Michele Scherillo, invece, ritengono che la lingua adoperata sia il latino volgare. Giulio Bertoni ipotizza che la lingua sia latino rustico, mentre Pio Rajna sostiene l’ipotesi dello schietto volgare.

Perché una lingua possa essere definita tale, deve essere presente nel parlante una chiara coscienza linguistica. Ciò significa che se il copista che ha scritto l’indovinello fosse stato cosciente del suo uso del volgare in contrapposizione alla lingua latina, l’attestazione potrebbe essere considerata senza ombra di dubbio volgare. Secondo alcuni studiosi, prova di questa coscienza linguistica sarebbe la benedizione in latino scritta a margine dell’indovinello, la quale dimostrerebbe come nello scrivente fosse chiara la diversità tra la lingua latina e il suo volgare. Alcuni paleografi, però, sostengono che la terza riga del codice contenente la benedizione sia stata scritta da altra mano e in epoca più tarda rispetto a quella dell’indovinello. Ciò farebbe, se non cadere, quanto meno traballare ogni ipotesi di coscienza linguistica del copista e di conseguenza l’indovinello si collocherebbe non tra le prime attestazioni dell’italiano volgare, ma tra quelle del tardo latino.

È forse il più antico testo pervenuto che usi lingua romanza (i Giuramenti di Strasburgo sono datati a cinquant’anni più tardi) e rappresenterebbe un possibile atto di nascita del volgare in Italia, ma non tutti gli studiosi sono concordi e alcuni ritengono che si tratti ancora di latino (pur se con le evidenti aberrazioni[2]).

Il codice fu originariamente redatto in Spagna all’inizio dell’VIII secolo e giunse a Verona non troppo tempo dopo. Le due postille furono individuate nel 1924.

Fu Vincenzo De Bartholomaeis a scoprirne per primo il senso, con l’aiuto di una studentessa universitaria del I anno.[1] Al testo dell’indovinello si accompagna un testo (riga 3), stavolta in latino più sorvegliato: si tratta di una formula canonica di benedizione in latino, esterna all’indovinello, ma che gli studiosi hanno utilizzato, talvolta in maniera contrastante, per avallare le proprie ipotesi linguistiche.
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libero adattamento mio dell'articolo di Veja.it

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