Un mondo perduto?: la venezianità adriatica.
Dal blog di Davide Ubizzo:
Le due regioni dell’ex Venezia Giulia – cioè il Goriziano, il Triestino, l’Istria e la città di Fiume al termine orientale dell’arco alpino – e la Dalmazia, la regione costiera dell’Adriatico orientale che si sviluppa tra il mare e i monti retrostanti del Quarnero sino alle Bocche di Cattaro – sommano la ricchezza e la complessità delle regioni di confine fra i diversi mondi geografici, etnici, culturali in un crocevia di culture: quella germanica, la latina e la slava. Il peculiare carattere culturale è probabilmente l’unico tratto distintivo capace di fornire quel comune denominatore che l’area politica e sociale adriatica pare aver dimenticato; un mondo perduto appunto, fatto di pietre calcaree e rovere, marinerie e navi, di commerci e scambi, marine assolate e fitti boschi mediterranei, di gusti semplici e forti, fatto di terra rossa e di mare trasparente, di tradizioni e consuetudini, di piatti e di dialetti.“Venezia e poi l’Austria, combinandosi al sangue della stirpe illirica, aveva costruito una specialissima razza d’uomini. Un innesto di Mediterraneo e Mitteleuropa.” Scrive Paolo Rumiz.
“La costa adriatica orientale presenta una certa omogeneità etnico culturale e linguistica, di costume e di tradizioni artistiche e urbanistiche. Non dovuta a processi di colonizzazione, quanto alla progressiva sedimentazione di una storia comune. Perfino Trieste, Fiume e Ragusa, sostanzialmente mai appartenuta alla Repubblica, erano venete nella loro identità sostanziale e mai appartenuta alla Repubblica, erano venete nella loro identità sostanziale ed espressive a conferma che non c’è stata vera imposizione.” ( P. Scandaletti, Storia dell’Istria e della Dalmazia- Edizioni Biblioteca dell’immagine 2013)
In questo quadro geografico più o meno dalla metà del 1200 al 1797 la Serenissima ha saputo coltivare, gestire e alimentare la sua peculiare specificità culturale veneta i cui influssi e le cui reminiscenze oggi, pur nel disorientamento e nel rimescolamento successivi al 1947, appaiono ancora, seppur sbiaditi, nella memoria e nei luoghi delle terre adriatiche. Come scriveva Fulvio Tomizza “Cinque secoli di civiltà non si cancellano. Persino nei villaggi croati dell’interno si continua a mangiare, lavorare le viti, oziare e giocare alla veneta.” (F. Tomizza, Destino di frontiera, Marietti 1992)
“Venezia in particolare è presente nelle pietre dei selciati, nella grazia dei palazzetti gotici, nei numerosissimi leoni di S. Marco (oltre centosessanta esemplari documentati essenzialmente lapidei), nella linea dei campanili, ville e abbazie, nei poderosi castelli costruiti da nobili veneziani, nonché nella dolce parlata istroveneta, quel dialetto istro-romanzo che purtroppo sta scomparendo, man mano che muoiono gli anziani e sempre meno esso viene pronunciato dalle ultime generazioni bilingui.” ( Irma Sandri Ubizzo, Istria: scatti d’amore – Alcione Editore 2006.)
La costa adriatica orientale che da Muggia ( Trieste ) scende fino a Cattaro ( Montenegro) nella sua struttura storica ripropone una conformazione urbanistica e architettonica che forma il modello veneziano di Città: il porto o mandracchio, le rive, la piazza, l’edificio del Potestà, i magazzini pubblici, la chiesa parrocchiale, i palazzi dei notabili. Questa struttura cittadina è solo la parte esteriore di un processo di aggregazione storico, architettonico e culturale che vide le sponde dell’Adriatico nord orientale congiungersi in una unità territoriale e sociale che durerà all’incirca 500 anni.
A partire dall’anno mille Venezia diede inizio ad un’azione politica volta al controllo del Mare Adriatico: “La spedizione marittima militare in Dalmazia da parte dei Veneziani, sotto la guida del Doge Pietro II Orseolo, avvenuta nell’anno Mille, aveva ribadito la supremazia che Venezia aveva sulle acque dell’Adriatico, un potere sostanzialmente marittimo, commerciale e soprattutto m
ilitare, di milizia marittima, in quanto si proteggevano i vari centri della costa e le loro navi.” ( Istria nel tempo, Manuale di storia regionale dell’Istria a cura del Centro di ricerche storiche Rovigno 2006). Ma fu già nel 932 che il Doge Pietro Candiano II sbarcò a Giustinopoli ( poi Capodistria, dove si trova il più antico leone marciano lapideo del 1317) per stabilire un piano di difesa dei possedimenti privati veneziani in Istria.
L’Istria, appunto, fu la prima tappa di questo processo storico, militare e culturale di costruzione di una civiltà. Da Muggia, Capodistria, Isola, Pirano, Umago, Cittanova, Parenzo, San Lorenzo, Montona, Orsera, Rovigno, Dignano, Pola, Sissano, Albona, Abbazia, Fiume, Cherso, Veglia e poi attraverso Lesina e Curzola fino a Spalato, Zara, Sebenico e Ragusa, ecco prendere forma l’arcipelago veneziano adriatico, un non – stato, in fondo solo una parte della storia veneziana, poi tragicamente confluito nella storia novecentesca della finis austriae tra Regno d’Italia e Yugoslavia, un fantasma del ‘900, uno dei tanti.
“In Istria si incontrano tantissime cose. Due mondi, le Alpi e il Mediterraneo; tre lingue, italiana, slovena e croata; e i segni forti di tre dominazioni: Roma che ha lasciato una grandiosa arena nella città di Pola; Venezia, che per secoli in Istria ha avuto basi commerciali costiere – Pirano, Rovigno e altre – sulle rotte del mare d’Oriente; e infine l’Impero d’Austria, che su quella penisola strategica ha costruito porti e ferrovie ancora in funzione, che si è dissolto con la prima guerra mondiale.” ( P. Rumiz, A piedi – Feltrinelli 2012)
Negli anni ’90, in uno dei frequenti viaggi familiari, ebbi l’occasione di visitare Cherso e nella piazza della cittadina omonima fummo avvicinati da un anziano del posto che sentendoci parlare in veneziano ci raccontò, in un purissimo dialetto chersino ( che dopo di allora non sentii più), che da giovane aveva a lungo navigato tra l’isola e Venezia a bordo di un burcio ( o forse un trabaccolo ) che trasportava legna da rivendere nella città lagunare. Un pezzo di storia, una delle tante storie.
Il governo di Venezia nell’Istria ebbe le stesse caratteristiche che in tutte le altre regioni dominate dalla Repubblica, fu il tipico governo di una città che accentra nella sua aristocrazia tutti i poteri ma che si caratterizza anche per la sua imparziale giustizia e, oltre che per le affinità etniche e le comuni tradizioni, per il benessere che essa portava alle popolazioni soggette. In Istria, quest’opera d’assimilazione veneta fu particolarmente efficace, sì che dialetto della penisola divenne col tempo la lingua parlata dalla Dominante, e gli istriani parteciparono, come cittadini veneti, a tutte le maggiori imprese di Venezia, dalle guerre contro gli Uscocchi alle imprese contro i Turchi.
Venezia fu per secoli il mercato naturale di un vasto territorio, il commercio infraregionale fu un caposaldo dell’economia veneziana. “Aquileia esportava a Venezia maiali e grano, l’Istria mandava a Venezia legname, carbone e pietra; Trieste , che nel sec. XIII faceva ormai concorrenza a Capodistria per importanza, mandava cuoio, pelli, carne; le Marche mandavano i loro vini.” (F.C. Lane, Storia di Venezia – Einaudi 1973)
Ciò che conta capire oggi, se vogliamo uscire dalla logica della contrapposizione e dei rancori, è che fu nell’800 con l’avvento delle Nazioni risorgimentali e dello sviluppo di idee di Nazione, di etnia e diritto dei popoli – e successivamente infine nella metà del ‘900 con la congiuntura funesta di ideologie totalitarie – che questo mondo finì. Faccio mia la definizione di Paolo Rumiz, anche se riferita ad altro tema, secondo cui serve un “armistizio della memoria” ( P. Rumiz, Come cavalli che dormono in piedi, Feltrinelli 2014) è ora cioè che si depongano le armi nazional ideologiche, gli odi e i rancori e ci si avvii verso una umana ed europea comunità di storie.
“L’antico regime istriano, soprattutto il dominio veneto, non è stato capito, anzi, troppo spesso è stato frainteso in chiave nazionale/nazionalistica. Eppure basta girare per la penisola per capire che i circa quattrocento anni precedenti all’Ottocento dei mutamenti dell’identità hanno plasmato la regione, le hanno dato quel qualcosa di particolare, in stupefacente sintonia con i suoi paesaggi naturali che la rende originale e riconoscibile.” ( Istria nel tempo, manuale di storia regionale dell’Istria a cura del Centro di ricerche storiche Rovigno 2006).
Se l’Italia, il Veneto, il Friuli Venezia Giulia, la Slovenia e la Croazia facessero pace con la loro storia forse potremmo riprendere antichi legami e restituire un ruolo all’Adriatico, in fondo basterebbe rileggere Stuparich, Quarantotti Gambini, Comisso, Marin, Tomizza.
“Alla sera riprese il buon vento e durò tutta la notte, all’alba ci trovammo prossimi alla costa istriana, visibile nei bianchi delle case rasenti alla curva azzurra delle acque. A Promontore i fondali apparvero attraverso il verde dell’acqua e la costa vicina era tutto un incavo di grotte. Dall’altra parte le isole splendevano nelle loro montagne rese trasparenti dalla luce. Ma oltre Punta Merlera il vento ci lasciò e le vele si fecero inerti.”
(Giovanni Comisso, Gente di mare – Longanesi, 1929)
Le due regioni dell’ex Venezia Giulia – cioè il Goriziano, il Triestino, l’Istria e la città di Fiume al termine orientale dell’arco alpino – e la Dalmazia, la regione costiera dell’Adriatico orientale che si sviluppa tra il mare e i monti retrostanti del Quarnero sino alle Bocche di Cattaro – sommano la ricchezza e la complessità delle regioni di confine fra i diversi mondi geografici, etnici, culturali in un crocevia di culture: quella germanica, la latina e la slava. Il peculiare carattere culturale è probabilmente l’unico tratto distintivo capace di fornire quel comune denominatore che l’area politica e sociale adriatica pare aver dimenticato; un mondo perduto appunto, fatto di pietre calcaree e rovere, marinerie e navi, di commerci e scambi, marine assolate e fitti boschi mediterranei, di gusti semplici e forti, fatto di terra rossa e di mare trasparente, di tradizioni e consuetudini, di piatti e di dialetti.“Venezia e poi l’Austria, combinandosi al sangue della stirpe illirica, aveva costruito una specialissima razza d’uomini. Un innesto di Mediterraneo e Mitteleuropa.” Scrive Paolo Rumiz.
In questo quadro geografico più o meno dalla metà del 1200 al 1797 la Serenissima ha saputo coltivare, gestire e alimentare la sua peculiare specificità culturale veneta i cui influssi e le cui reminiscenze oggi, pur nel disorientamento e nel rimescolamento successivi al 1947, appaiono ancora, seppur sbiaditi, nella memoria e nei luoghi delle terre adriatiche. Come scriveva Fulvio Tomizza “Cinque secoli di civiltà non si cancellano. Persino nei villaggi croati dell’interno si continua a mangiare, lavorare le viti, oziare e giocare alla veneta.” (F. Tomizza, Destino di frontiera, Marietti 1992)
leon a Pisino, oggi croata |
La costa adriatica orientale che da Muggia ( Trieste ) scende fino a Cattaro ( Montenegro) nella sua struttura storica ripropone una conformazione urbanistica e architettonica che forma il modello veneziano di Città: il porto o mandracchio, le rive, la piazza, l’edificio del Potestà, i magazzini pubblici, la chiesa parrocchiale, i palazzi dei notabili. Questa struttura cittadina è solo la parte esteriore di un processo di aggregazione storico, architettonico e culturale che vide le sponde dell’Adriatico nord orientale congiungersi in una unità territoriale e sociale che durerà all’incirca 500 anni.
A partire dall’anno mille Venezia diede inizio ad un’azione politica volta al controllo del Mare Adriatico: “La spedizione marittima militare in Dalmazia da parte dei Veneziani, sotto la guida del Doge Pietro II Orseolo, avvenuta nell’anno Mille, aveva ribadito la supremazia che Venezia aveva sulle acque dell’Adriatico, un potere sostanzialmente marittimo, commerciale e soprattutto m
ilitare, di milizia marittima, in quanto si proteggevano i vari centri della costa e le loro navi.” ( Istria nel tempo, Manuale di storia regionale dell’Istria a cura del Centro di ricerche storiche Rovigno 2006). Ma fu già nel 932 che il Doge Pietro Candiano II sbarcò a Giustinopoli ( poi Capodistria, dove si trova il più antico leone marciano lapideo del 1317) per stabilire un piano di difesa dei possedimenti privati veneziani in Istria.
L’Istria, appunto, fu la prima tappa di questo processo storico, militare e culturale di costruzione di una civiltà. Da Muggia, Capodistria, Isola, Pirano, Umago, Cittanova, Parenzo, San Lorenzo, Montona, Orsera, Rovigno, Dignano, Pola, Sissano, Albona, Abbazia, Fiume, Cherso, Veglia e poi attraverso Lesina e Curzola fino a Spalato, Zara, Sebenico e Ragusa, ecco prendere forma l’arcipelago veneziano adriatico, un non – stato, in fondo solo una parte della storia veneziana, poi tragicamente confluito nella storia novecentesca della finis austriae tra Regno d’Italia e Yugoslavia, un fantasma del ‘900, uno dei tanti.
“In Istria si incontrano tantissime cose. Due mondi, le Alpi e il Mediterraneo; tre lingue, italiana, slovena e croata; e i segni forti di tre dominazioni: Roma che ha lasciato una grandiosa arena nella città di Pola; Venezia, che per secoli in Istria ha avuto basi commerciali costiere – Pirano, Rovigno e altre – sulle rotte del mare d’Oriente; e infine l’Impero d’Austria, che su quella penisola strategica ha costruito porti e ferrovie ancora in funzione, che si è dissolto con la prima guerra mondiale.” ( P. Rumiz, A piedi – Feltrinelli 2012)
Negli anni ’90, in uno dei frequenti viaggi familiari, ebbi l’occasione di visitare Cherso e nella piazza della cittadina omonima fummo avvicinati da un anziano del posto che sentendoci parlare in veneziano ci raccontò, in un purissimo dialetto chersino ( che dopo di allora non sentii più), che da giovane aveva a lungo navigato tra l’isola e Venezia a bordo di un burcio ( o forse un trabaccolo ) che trasportava legna da rivendere nella città lagunare. Un pezzo di storia, una delle tante storie.
Venezia fu per secoli il mercato naturale di un vasto territorio, il commercio infraregionale fu un caposaldo dell’economia veneziana. “Aquileia esportava a Venezia maiali e grano, l’Istria mandava a Venezia legname, carbone e pietra; Trieste , che nel sec. XIII faceva ormai concorrenza a Capodistria per importanza, mandava cuoio, pelli, carne; le Marche mandavano i loro vini.” (F.C. Lane, Storia di Venezia – Einaudi 1973)
Ciò che conta capire oggi, se vogliamo uscire dalla logica della contrapposizione e dei rancori, è che fu nell’800 con l’avvento delle Nazioni risorgimentali e dello sviluppo di idee di Nazione, di etnia e diritto dei popoli – e successivamente infine nella metà del ‘900 con la congiuntura funesta di ideologie totalitarie – che questo mondo finì. Faccio mia la definizione di Paolo Rumiz, anche se riferita ad altro tema, secondo cui serve un “armistizio della memoria” ( P. Rumiz, Come cavalli che dormono in piedi, Feltrinelli 2014) è ora cioè che si depongano le armi nazional ideologiche, gli odi e i rancori e ci si avvii verso una umana ed europea comunità di storie.
“L’antico regime istriano, soprattutto il dominio veneto, non è stato capito, anzi, troppo spesso è stato frainteso in chiave nazionale/nazionalistica. Eppure basta girare per la penisola per capire che i circa quattrocento anni precedenti all’Ottocento dei mutamenti dell’identità hanno plasmato la regione, le hanno dato quel qualcosa di particolare, in stupefacente sintonia con i suoi paesaggi naturali che la rende originale e riconoscibile.” ( Istria nel tempo, manuale di storia regionale dell’Istria a cura del Centro di ricerche storiche Rovigno 2006).
Se l’Italia, il Veneto, il Friuli Venezia Giulia, la Slovenia e la Croazia facessero pace con la loro storia forse potremmo riprendere antichi legami e restituire un ruolo all’Adriatico, in fondo basterebbe rileggere Stuparich, Quarantotti Gambini, Comisso, Marin, Tomizza.
“Alla sera riprese il buon vento e durò tutta la notte, all’alba ci trovammo prossimi alla costa istriana, visibile nei bianchi delle case rasenti alla curva azzurra delle acque. A Promontore i fondali apparvero attraverso il verde dell’acqua e la costa vicina era tutto un incavo di grotte. Dall’altra parte le isole splendevano nelle loro montagne rese trasparenti dalla luce. Ma oltre Punta Merlera il vento ci lasciò e le vele si fecero inerti.”
(Giovanni Comisso, Gente di mare – Longanesi, 1929)
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