Vin e bacalà a Venessia
Vin e bacalà a Venessia
Senz'altro sapevano bere bene e non altrettanto a farlo
Quando il nobiluomo veneziano, produttore e mercante di
vini Pietro Querini, dopo essere partito dall’isola di Candia (Creta) con un
carico di malvasia per le Fiandre, naufragò nel 1431 nei pressi delle isole
Lofoten, oltre il circolo polare artico, non immaginava che quella disgrazia
avrebbe modificato le abitudini alimentari del Veneto e di tutta l’Italia.
Dall’isola di Røst portò con sé lo stoccafisso, il baccalà per i Veneti.
Quindi si può affermare che a Venezia il vino ed il baccalà, senza Querini, non
si sarebbero mai incontrati, e oggi non mangeremmo il baccalà.
Pietro Querini |
Il commerciante-armatore-navigatore Querini aveva colto
al volo la praticità di questo alimento essicato per la dieta dei marinai
durante i lunghi viaggi, iniziando così la sua diffusione in Italia.
Il baccalà, a Venezia fino alla fine degli anni ‘50 del
secolo scorso, veniva battuto sui masegni
delle Zattere (le pietre della pavimentazione) dai manovali dei burci e dei
trabaccoli (barche tipiche dell’alto Adriatico), da cui deriva il detto “done, cani e bacalà, no i xe bon se no i xe pestà”
(donne, cani e baccalà non sono buoni se non sono pestati), purtroppo ancora in
voga nonostante la ”parità dei sessi” o leggi contro la violenza alle donne.
A Venezia tutto era per lo Stato, a Genova invece tutto
per il capitale.
Sulle rotte commerciali non viaggiarono solo uomini,
merci e denari, ma soprattutto le idee, le quali contribuirono a creare quella
mentalità che troviamo nell’originale senso di Stato della Repubblica
Serenissima e in quell’idea di Bene Comune vantaggioso per tutti, dai popolani ai
patrizi.
I mercanti veneziani intuirono che, trasformando il vino
da genere alimentare a oggetto di culto, (cioè status symbol) potevano
aumentare le entrate ed avere uno strumento per risollevare lo spirito ed il
corpo di una Europa afflitta e decimata dalla peste nera; le morti per denutrizione
erano aumentate a causa delle carestie conseguenti la “piccola glaciazione” che
colpì l’Europa dalla metà del XIV°, solo la carestia del 1315 uccise 1,5 milioni di persone. Nelle opere
d'arte dell'epoca la neve ed il ghiaccio dominano nei paesaggi dei pittori
fiamminghi e nord europei.
laguna ghiacciata in un dipinto del 1709 |
Commercianti intraprendenti come il Querini adottarono (ante
litteram) i metodi della promo-comunicazione d’oggi giorno, proponendo il
consumo di quei vini provenienti da territori lontani, ad un mercato d’elite, donandoli
ai regnanti oppure facendoli assaggiare durante i banchetti ufficiali al corpo
diplomatico di tutta Europa. Nell’anno in cui i Turchi conquistano
Costantinopoli, che coincise con il ritorno di Bordeaux sotto la tutela del Re
di Francia (grazie anche alla fine della Guerra dei Cent’anni), i commercianti
veneziani di vini rimpiazzarono a Londra quelli francesi e sfondarono nel
mercato inglese dopo aver omaggiato la casa reale con solo otto botti di
malvasia.
La Serenissima, per valorizzarne l’origine e per creare
valore aggiunto, applicava a questi vini dazi elevati per limitare il consumo
alle sole classi abbienti. La novità vincente, per quei tempi, è che i vini vengono
riconosciuti e denominati secondo i luoghi di rovenienza, in un’epoca nella
quale i vini erano chiamati in base al loro colore (bianchi o rossi) e con
indicazioni molto generiche, ”de plano
o de monte”o dal nome del vitigno. Si
inizia ad identificarli con i territori di provenienza come quelli, lontani e
misteriosi controllati dai Bizantini, ma soprattutto viene proposta ai
consumatori una tipologia di vino allora sconosciuta in Occidente, dolce ed
aromatico (leggermente liquoroso) come la malvasia di Creta.
Questa nuova “moda” viene testimoniata dalle citazioni
dei manuali di cucina o di farmacia o nelle opere letterarie dove i vini sono
descritti proprio facendo riferendo ai territori di produzione. Inizia così
l’abitudine a considerare i vini dolci dei beni di lusso a differenza di quelli
secchi.
Furono proprio i veneziani ad usare il termine malvasia per indicare prima i vini dolci ed alcolici provenienti dalla parte orientale del Mediterraneo e poi anche i locali dove si svolgeva la vendita e la mescita.
Il vino più pregiato, ma anche il più caro, che arrivava
a Venezia era quello di Cipro, importato in tre tipologie: quello comune, il
Cipro Commandaria con 15 anni di invecchiamento ed il moscato.
Con molta
probabilità i veneziani sapevano berlo ma non produrlo.
La caduta di Candia in mani turche comportò una perdita molto
pesante nel traffico commerciale dal Levante, dove la concorrenza inglese ed
olandese cominciava già a farsi sentire in particolare nel mercato della
malvasia e delle spezie. Questo costringe i veneziani a spostare la produzione
della malvasia in luoghi più vicini e più sicuri nei propri territori lungo le
coste adriatiche.
Bei vigneti crescevano nelle isole di Sant’Erasmo,
Mazzorbo, Lido, e poi anche nel Litorale e nella Terraferma, e perfino nel
centro storico come le Vigne delle Monache di San Lorenzo e San Zaccaria o
quelli che c’erano nell’attuale Piazzale Roma; ciò nonostante il vino veneziano
non è mai stato considerato di pregi.
Cause? Sarà stata la terra salmastra o l’ambiente troppo
umido o chissà che cosa, sta di fatto che il vino di Venezia è sempre stato un
po’ sapido, amarognolo, non proprio gradevole al palato.
Non un gran vino, insomma.
Bottega artigiana di bottéri |
Era permesso venderlo sulle "rive " di Rialto e
San Marco anche nei giorni festivi e nelle domeniche, eccetto a Natale,
Pasqua, Pentecoste, Corpus Domini, Ascensione, Annunciasion e alle Feste
Benedette della Madonna dea Salute e del Redentor.”
La maggior parte dei bottéri
lavorava ed abitava in Contrada di San Cassian poco distante
dall’Emporio di Rialto e della Riva del Vin, dove giunsero perfino a sagomare
le porte (vedi foto sotto) e gli stipiti dei magazzini per far passare più agevolmente le botti.
La Serenissima, fin da quando decise che il vino fosse
comercializzato in regime di monopolio, puntò sulla qualità che doveva essere di altissimo livello. Fin dal 1173 c’era il divieto di annacquarlo (legge del doge Sebastiano Ziani ) e di
alterarlo con l'aggiunta di rocheta, cioè
l'erba rucola dal sapore forte o di allume di rocca o di melassa. I vini adulterati
venivano gettati in Canal Grande dal Ponte di Rialto, mentre quelli sequestrati
per altri motivi, ma prodotti in modo corretto, venivano dati gratis ai monasteri
o distribuiti ai poveri.
L’attività dei mercanti di vino era regolata da norme che
imponevano la mediazione dei cosiddetti giustizieri,
ai quali gli osti dovevano portare i campioni di vino (le mostre) che intendevano acquistare. In pratica il vino era
acquistato dai giustizieri che lo rivendevano agli osti ad un prezzo superiore
e la differenza finiva nelle casse dello Stato.
riva del vin a Rialto |
A Rialto, lungo la “riva
del vin”, era stato creato il più grosso centro di raccolta del vino della
città. Qui arrivava quello prodotto nelle isole della laguna e in terraferma, come
quello proveniente dall’Istria, dalle Marche e dall’Abruzzo, Puglie, Sicilia e Grecia.
Sempre sulla stessa riva del Canal Grande, oltre il ponte
di Rialto dopo il mercato del pesce ed il campo
de le bécarie, c’era il centro per la raccolta degli olii provenienti dal
Sud (“riva de l’ogio”).
Il contrabbando, nonostante l’intensa attività di
controllo da parte dei dazieri, era molto attivo soprattutto di notte. Al
riguardo una particolare curiosità: nelle imbarcazioni impiegate per il
trasporto del vino era vietato tenere cani, abbaiando avrebbero segnalato l’avvicinarsi
dei dazieri.
imbarcazione con botti per il trasporto del vino o dell'uva da vinificare |
Quando i cambiamenti climatici, iniziati nel XIV° sec., cominciarono
a produrre i loro effetti con la scarsa qualità delle uve e conservabilità del
vino, il commercio con i territori dell’entroterra subirono un notevole calo,
al contrario di quello con il Mediterraneo orientale che invece aumentò. Nel
commercio interno, dalla terraferma verso Venezia, la scena era monopolizzata
dai vini veronesi (da 15.000 a 40.000 hl/anno a seconda delle annate), dai terrani di Schiavonia (la categoria includeva
i vini dell’Istria, della Dalmazia e dell’Albania) e da quelli del basso trentino
(in particolare il marzemino di Rovereto) grazie al fatto che erano agevolati dai dazi più favorevoli
rispetto quelli provenienti da Corfù, Zante, Cefalonia e della costa adriatica.
Per aggirare i balzelli, si diffuse senza grandi successi, la vinificazione
delle uve provenienti dall’Istria e dalle Marche.
La prima guida dei
vini
A metà del 1400, grazie al proliferare delle tipografie
ed essendo la gastronomia rinascimentale una faccenda per ricchi, si stamparono
i primi "ricettari" di cucina e nel 1535 venne pubblicato il primo trattato di
enologia, il De vini natura disputatio
di G. B. Confalonieri, con cui si inizia a descrivere le varie tipologie e ad
analizzare le caratteristiche dei vini.
I vini dolci comunque non facevano troppa concorrenza ai
vini normali, sia per il grado alcolico elevato che per il prezzo che ne
limitava il loro consumo ad occasioni particolari. Di norma venivano consumati
con l’aggiunta di acqua, per ridurre se non togliere il non sempre gradito
sapore di resina, che veniva aggiunta per la conservazione durante il trasporto
dai porti di imbarco.
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