L'E' QUA L'ONBRELARO, DONE! GHE GNENTE?
"... MAARELE, MANEGHI DE OSSO, OMBRELE DA GIUSTAREEE!"
L'ombrellaio ambulante non si presentava per le strade di campagna con un grido aperto e sonoro, ma con il grido sommesso di chi non è abituato a ricevere molte offerte di lavoro.
Tra tutti i mestieri ambulanti quello dell'ombrellaio era il meno richiesto tra la gente di campagna, che usava l'ombrello solo la domenica, se pioveva, per andare a messa.
Nei mercati di città invece l'ombrellaio si rianimava e quando oltre che riparatore era anche produttore, per attivare l'attenzione del pubblico, urlava il suo richiamo aprendo e riaprendo i vari tipi di ombrello, rovesciandoli per terra a prova della loro solidità.
L'ombreleta, o ombrelaro, o giustaombrele, a seconda delle aree di arrivo, portava a tracolla una barséla, un involucro lungo e stretto di tela rigida, che conteneva gli ombrelli da riparare, le stecche di ricambio, gli attrezzi di lavoro e i pochi indumenti personali.
Nel tascapane custodiva pezze di varia misura, per rappezzare la tela degli ombrelli sgualciti. Anche questo ambulante, spesso accompagnato da un apprendista, dormiva nei fienili e nelle stalle, perché il suo mestiere lo portava assai lontano da casa.
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Qualcuno si spingeva nella pianura veneta dal passo di Resia, dalla val Rendena; durante la Belle Epoque venivano a vendere la loro merce i famosi ombrellai della sponda occidentale del Lago Maggiore, annunciandosi con la cantilena: "Ombrelli, ombrellini di seta, parasoli!"...Durante i loro spostamenti, questi ombrellai ricorrevano al tarusc, una lingua segreta, con un lessico di circa 400 vocaboli.
L'ombrello rotto, in tarùsc era chiamato rajòn, il proprietario casér, il parasole, luscìn, il denaro bergna, il fieno lègar, e così via. I pochi ombrellai provenienti dalla val Rendena, ricorrevano invece a una varietà di taròn diversa, assai simile a quella usata fagli arrotini della stessa valle. Nel loro gergo straciòna era l'ombrello, e lucier o stracionier l'ombrellaio.
Di Loredana Corrà
L'ombrellaio ambulante non si presentava per le strade di campagna con un grido aperto e sonoro, ma con il grido sommesso di chi non è abituato a ricevere molte offerte di lavoro.
Tra tutti i mestieri ambulanti quello dell'ombrellaio era il meno richiesto tra la gente di campagna, che usava l'ombrello solo la domenica, se pioveva, per andare a messa.
Nei mercati di città invece l'ombrellaio si rianimava e quando oltre che riparatore era anche produttore, per attivare l'attenzione del pubblico, urlava il suo richiamo aprendo e riaprendo i vari tipi di ombrello, rovesciandoli per terra a prova della loro solidità.
L'ombreleta, o ombrelaro, o giustaombrele, a seconda delle aree di arrivo, portava a tracolla una barséla, un involucro lungo e stretto di tela rigida, che conteneva gli ombrelli da riparare, le stecche di ricambio, gli attrezzi di lavoro e i pochi indumenti personali.
Nel tascapane custodiva pezze di varia misura, per rappezzare la tela degli ombrelli sgualciti. Anche questo ambulante, spesso accompagnato da un apprendista, dormiva nei fienili e nelle stalle, perché il suo mestiere lo portava assai lontano da casa.
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Qualcuno si spingeva nella pianura veneta dal passo di Resia, dalla val Rendena; durante la Belle Epoque venivano a vendere la loro merce i famosi ombrellai della sponda occidentale del Lago Maggiore, annunciandosi con la cantilena: "Ombrelli, ombrellini di seta, parasoli!"...Durante i loro spostamenti, questi ombrellai ricorrevano al tarusc, una lingua segreta, con un lessico di circa 400 vocaboli.
L'ombrello rotto, in tarùsc era chiamato rajòn, il proprietario casér, il parasole, luscìn, il denaro bergna, il fieno lègar, e così via. I pochi ombrellai provenienti dalla val Rendena, ricorrevano invece a una varietà di taròn diversa, assai simile a quella usata fagli arrotini della stessa valle. Nel loro gergo straciòna era l'ombrello, e lucier o stracionier l'ombrellaio.
Di Loredana Corrà
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