VENEZIA "CATTIVA" INVENTA IL GHETTO? MA GLI EBREI ERANO CONSIDERATI PREZIOSI.
Tra le leggende nere che continuano a resistere sulla memoria storica veneziana (e quindi sul lascito della civiltà veneta) compare anche quella riguardante una presunta intenzione persecutoria verso la comunità ebraica, ospite della nostra capitale, peggiorata dal fatto che proprio da noi si realizzò per la prima volta in Europa il "Ghetto".
Ma la realtà era ben diversa, dato che quartieri destinati ad ospitare in maniera ordinata le comunità straniere in una città cosmopolita come Venezia erano cosa comune, vi fu infatti il Fondaco destinato ai "Todeschi" quello dei Turchi e intere calli erano destinate ad ospitare altre comunità "foreste". In realtà Venezia accolse le comunità ebraiche esulse in Spagna e Portogallo, o perseguitate nel centro Europa.
Vi metto quindi un brano tratto dalla presentazione della mostra sugli Ebrei a Venezia che, anche attraverso le parole dell'intellettuale ebreo Calimani, mette le cose nella giusta prospettiva. Che il ghetto fosse poi chiuso alla sera, era anche per fornire protezione della comunità ebraica stessa.
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L’ipotesi di partenza del progetto infatti è che la storia dell’istituzione del Ghetto a Venezia debba essere studiata nel quadro della più generale gestione da parte della Repubblica Veneta delle minoranze nazionali, etniche e religiose che vivevano nella città, capitale di una “economia mondo”, come la chiamava lo storico Fernand Braudel.
Ma si tratta anche di spiegare come queste relazioni si siano via via allargate a un ambito geografico molto vasto e siano continuate nel tempo, adattandosi ai cambiamenti politici, sociali e culturali.
Nei primi decenni del XVI secolo la Repubblica Veneta aveva messo in atto una strategia urbana di accoglienza, offerta di garanzie e contemporaneamente di sorveglianza, più o meno rigida nei confronti anche di altre comunità nazionali e religiose, importanti per le proprie attività economiche come i popoli del Nord (con il Fondaco dei Tedeschi), i greci ortodossi (con la concessione di costruire a loro spese una chiesa e un collegio) e via via gli albanesi, i persiani, i turchi.
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Gli ebrei, al pari d’altre minoranze, erano “preziosi” per la Serenissima (come si legge in alcuni documenti): le sue magistrature, alcuni nobili, lo stesso doge Leonardo Loredan, che era “principe” al momento del decreto istitutivo (29 marzo 1516), ne erano perfettamente consapevoli. Ciononostante Venezia, che aveva concesso agli ebrei presenti sul proprio territorio – anche quando l’Europa li stava cacciando dopo i noti decreti d’espulsione dalla Spagna (1492) e dal Portogallo (1496) – d’entrare in città come rifugiati di guerra, in seguito alle drammatiche conseguenza della lega di Cambrai e alla sconfitta di Agnadello, si pose presto il problema di come trattare la minoranza ebraica.
“La posta in gioco era la difesa dei valori culturali fondamentali per la loro percezione di se stessi. Vale a dire – secondo Robert Bonfil – di tutti quei valori che “il mito di Venezia” reputava i più essenziali in assoluto: giustizia, libertà e benessere, il tutto radicato nel buon governo e non da ultimo nella difesa dell’etica cristiana, senza la quale non sono concepibili né la giustizia né il benessere”
La scelta di non cacciare gli ebrei ma di mantenerli dentro il ghetto fu vissuta come il male minore e la chiusura, una palese discriminazione, finì per trasformarsi anche in un’utile difesa, perché gli ebrei, soggetto politicamente debole all’esterno delle mura, diventarono all’interno autonomi, quasi padroni delle loro azioni, in molti casi ben più di tanti abitanti e sudditi che vivevano alla completa mercé del doge, del principe, del papa o del re.
A Venezia questo Hazzer (parola ebraica per definire il recinto), il Ghetto – preso a modello negativo in tutta Europa come realtà fisica e come termine – si trasformò a poco a poco in un’istituzione quasi a sé, “uno scudo”, come scrive Riccardo Calimani, “che, pur nella precarietà dilagante disponeva, nonostante tutto, di poteri e privilegi che gli permettevano di farsi ascoltare e di trattare con i propri interlocutori all’esterno, con una libertà d’iniziativa in qualche caso sorprendente”. Cosmopolita al suo interno – ove vennero a convivere ebrei tedeschi e italiani, ebrei levantini, ponentini e portoghesi – il Ghetto di Venezia fu dunque una realtà fortemente permeabile, in costante interazione con l’esterno e in primis con la città lagunare, essa stessa straordinariamente multinazionale e multietnica, per convinzione o pragmatismo.
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