1917: IL SOLDATINO FUCILATO DA GRAZIANI PER UN SIGARO, A NOVENTA PADOVANA
Ruffini, nativo di Castelfidardo, stava marciando con la sua compagnia alla presenza del generale Graziani. Che lesse quel gesto come una sfida e, dopo averlo redarguito, lo fece mettere al muro nonostante le rimostranze di alcuni cittadini. Ancora oggi quel muro dell’edificio che si trova di fronte a piazza Europa conserva intatti i fori dei proiettili.
Abbiamo ripreso da un blog di storia la vicenda che spiega come poteva accadere una vergogna simile.
Morire per un sigaro non spento al passaggio di un superiore. A 23 anni. Una scena che potrebbe ricordare una lotta tra bande ai giorni nostri, e che invece risale a cento anni fa. Come abbiamo raccontato nel libro Caporetto, 24 ottobre 1917: storia e leggenda di una disfatta (in uscita il 24 ottobre in edicola con il Corriere della Sera), Alessandro Ruffini sta marciando durante la ritirata dalla Carnia con la sua unità – il 28esimo reggimento- nei pressi di Noventa Padovana (Veneto), nel pomeriggio del 3 novembre 1917. Una ritirata provocata appunto dallo sfondamento di Caporetto. Il giovane, originario di Castelfidardo, in provincia di Ancona, è uno dei tanti soldati di un esercito stanco e demoralizzato, portato in guerra e tenuto in linea da una disciplina ferrea. Un esercito al quale è chiesta (solo) passiva obbedienza, e che pure fino ad allora ha dimostrato una combattività e un’efficienza non inferiore ad altri. Un esercito che, reduce dalla rotta di Caporetto, si piega, in parte collassa, rischia il disastro totale ma non si arrende. Ruffini ha la sfortuna di incrociare lo sguardo di Andrea Graziani. L’uomo, che nel 1916 si era guadagnato il titolo di “eroe del Pasubio” (a capo della 44^ Divisione che resistette indomita ai violenti attacchi nemici) e che sarebbe poi passato alla storia come “il generale delle fucilazioni”, è stato incaricato dal Comando supremo di mettere ordine nelle retrovie affollate di sbandati e fuggiaschi.
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Forse per sfida, forse per disattenzione, o forse nemmeno se ne rende conto, Ruffini non si toglie il sigaro dalla bocca al passaggio del superiore, che non ha dubbi: quello del fante è un grave atto di insubordinazione. Un comportamento che va punito, anche per dare una lezione a tutti gli altri soldati. Graziani ordina l’immediata fucilazione del giovane – che intanto viene picchiato -, eseguita sul posto nonostante le proteste dei presenti. Il sindaco, racconta le cronache, fa osservare al generale che quello non è il modo di trattare i “nostri” soldati ma l’alto ufficiale, infuriato, risponde: “Dei soldati io faccio quello che mi piace”. Spetta al tenente Folezzani (del 28° artiglieria campale) farlo sotterrare: “E’ un uomo morto d’asfissia”, dice Graziani prima di risalire in automobile e partire. Il parroco di Noventa Padovana, don Giovanni Battista Celotto, scrive nell’atto di morte (in Cesare Alberto Loverre, AL MURO. Le fucilazioni del generale Andrea Graziani nel novembre 1917. Cronache di una giustizia esemplare – Centro Studi Ettore Luccini)
Ruffini Alessandro, figlio di Giacomo e di Bertoli Nazzarena, nato il 29 Gennaio 1893 nella Parrocchia di Castelfidardo, di condizione militare della 10a Batteria 34° Reg.to Artiglieria da campagna, morì il 3 Novembre 1917 alle ore 4 pom. per ordine del General Graziani fucilato alla schiena. Ricevette l’Assoluzione e l’O.S.. La sua salma dopo le esequie fu tumulata nel Cimitero Comunale.
andrea graziani, minuscolo, il macellaio |
Chiamato nel 1919 a giustificare il gesto, Graziani racconta: “Valutai tutta la gravità di quella sfida verso un generale, valutai la necessità di dare subito un esempio terribile atto a persuadere tutti i duecentomila sbandati che da quel momento vi era una forza superiore alla loro anarchia”. D’altronde l’esempio veniva dall’alto: Graziani si era “limitato” ad eseguire le direttive del capo di Stato maggiore Luigi Cadorna, che nelle esecuzioni sommarie vedeva uno dei modi per seminare il terrore e mettere in riga un esercito indisciplinato e poco coraggioso, come ebbe a ribadire in occasione della sconfitta di Caporetto del 24 ottobre. Un esercito che “il generalissimo” riteneva responsabile della sconfitta, così motivata: “La mancata resistenza di reparti della seconda armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico … ” (28 ottobre 1917).
La storia dell’artigliere Ruffini è solo un esempio delle centinaia di esecuzioni sommarie compiute nel nome della Patria nella Grande Guerra: di lui scrissero i giornali, e vi furono interrogazioni parlamentari. Una dei deputati Armando Bussi, Ferruccio Bernardini, Galileo Beghi, Umberto Brunelli, Giuseppe Emanuele Modigliani, Adelmo Sichel, Giovanni Bertini e l’altra dei deputati Alfredo Sandulli, Arturo Labriola, Annibale Vigna e Salvatore Girardi. Il gesto si spiega (ma non si giustifica) alla luce di un crescente clima di diserzione e rifiuto del combattimento, culminato con quella che la storia ricorda come la Disfatta con la D maiuscola. Quando a guerra finita venne meno la censura, la notizia di Ruffini fu pubblicata sull’Avanti! e Graziani rispose attraverso le colonne de Il Resto del Carlino (6 agosto 1919). Ruffini col suo sigaro “piantato attraverso la bocca” e con la sua “faccia di scherno” si era reso colpevole di una forma di insubordinazione particolarmente grave, ricorda Gianni Rocca in Cadorna: il generalissimo di Caporetto. L’episodio non impedì a Graziani di continuare la carriera. All’avvento del fascismo comandò la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale per le province di Trento, Vicenza, Verona e Belluno. Fu anche sindaco di San Massimo, in provincia di Campobasso. Il 27 febbraio 1931 fu trovato morto sui binari nel tratto Prato-Firenze, ma l’autorità archiviò il caso come “caduta accidentale” dal treno.
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.Vale la pena ricordare brevemente, invitandovi a leggere il libro, che le punizioni e le condanne a morte riguardarono anche i soldati che si rifiutavano di uscire dalle trincee durante un assalto, ma anche chi tornava in ritardo dopo una licenza o veniva sorpreso a riferire o scrivere una frase ingiuriosa contro un suo superiore. Stessa sorte era prevista per tutti quegli ufficiali che, anche per un solo momento, avessero dubitato della tattica imposta dal Comando Supremo. È stato calcolato che tra l’ottobre del 1915 e l’ottobre del 1917 furono eseguite circa 140 esecuzioni capitali per i motivi più disparati. Nei casi di un reato commesso da un gruppo di soldati (come una brigata), la strada era quella della decimazione. Uno dei casi più celebri fu quello della Brigata Catanzaro, a Santa Maria la Longa, nel luglio del 1917. I soldati, dopo aver combattuto in prima linea sul Carso isontino, sull’Altopiano di Asiago e poi nella zona del Monte Ermada, furono trasportati nelle retrovie a riposare. Le licenze erano state sospese e la difficile vita in trincea li provò notevolmente. Dopo pochi giorni, fu loro ordinato di riprendere la strada verso il Monte. A quel punto scoppiò la rivolta: 9 soldati e due ufficiali vennero colpiti a morte e solo l’intervento dei blindati e dell’artiglieria leggera fermò l’ira della Brigata Catanzaro. Ristabilita la calma, i comandi militari decisero di dare un messaggio esemplare: 12 soldati, scelti a caso, vennero giustiziati e 123 furono mandati davanti al Tribunale Militare.
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