LA GIUSTIZIA VENETA E IL FORNARETO DI VENEZIA
Gli ingiusti sian puniti e il seme degli empi perirà! Era scritto a Traù nel tribunale veneto.
Dopo aver perso il diritto naturale di essere stato e vederci negata persino l'idea di essere nazione, abbiamo visto in questi 200 anni, completamente travisati i princìpi di giustizia su cui si reggeva il dominio veneziano. una campagna che ha i suoi primi padri tra gli illuministi del 700 e che è proseguita poi con l'aiuto di una vera e propria campagna di falsità. Spicca tra tutte la leggenda del "fornareto", vittima della sanguinaria mano della legge veneta. Leggiamo quanto scrive Edoardo Rubini, specialista del settore, in proposito:
I fondamenti della Giustizia nella Veneta Serenissima Repubblica
1. Come definire l’amministrazione della Giustizia nella Repubblica Serenissima?
La giustizia nello Stato Marciano si può definire sostanziale: il concetto è importante perché tutti sentono l’esigenza che in un tribunale si facciano sentenze ispirate ad un armonico equilibrio; ogni uomo nel suo cuore deve riconoscere la sentenza come il Bene, la cosa giusta. La giustizia dei tempi odierni è invece formale, perché amministrata attraverso la meccanica applicazione di leggi scritte.
Tale sistema formale nasce dal pensiero illuminista, tutto teso a spazzare via il fondamento divino della legge; in particolare Rousseau e Montesquieu hanno voluto teorizzare una società perfetta, dove, una volta scritte delle belle leggi in nome del popolo sovrano, tutto d’incanto sarebbe funzionato a meraviglia.
Il sistema in uso negli Stati Cristiani, tra cui la Serenissima, era diverso: nessuno agognava un utopico progresso, piuttosto si faceva tesoro dell’esperienza. Si governava e si giudicava studiando l’animo umano per regolarlo al meglio. Le leggi dello Stato antico trattavano questioni specifiche e particolari: non c’erano organismi politici a decidere cos’è giusto e cos’è sbagliato, cos’è la vita, cos’è la famiglia, se c’è o non c’è differenza tra l’uomo e la donna, il senso dell’onore, e così via.
Esisteva dunque un fondamento trascendente, un patrimonio sacro, immutabile, intangibile: noi tecnici del diritto lo chiamiamo “Diritto Naturale”, cioè connesso alla Tradizione.
Di questo ordine, che fu vigente per un millennio e mezzo, oggi si son perdute le tracce: i cambiamenti seguiti alla Rivoluzione Francese e alle invasioni napoleoniche hanno avuto l’effetto a lungo termine di sradicare la Civiltà Cattolica preesistente in tutta Europa.
2. Ma vediamo se, in pratica, la Giustizia a Venezia era disumana, oppure se era quella che il popolo si aspettava.
La pratica giudiziaria che i Veneziani coltivarono per secoli si basava su mitezza, equità ed imparzialità: si reprimevano i reati più gravi con severità ed asprezza, ma nei casi ordinari lo Stato era clemente e comprensivo, si comportava con i sudditi come mamma e papà. Come su tutto il resto, la Serenissima non faceva buonismo, né pensava ai massimi sistemi, ma si concentrava sul PROBLEMA PRATICO. Poco importava se in un processo che magari minacciava la sicurezza di tutti ci fossero tre gradi di giudizio, come si fa invece oggi: si pensava fosse più utile fissare la regola che i processi si dovessero chiudere entro un mese.
Se poi questo non accadeva erano guai: si ricercavano attentamente le cause che avevano impedito al sistema di funzionare, si prendevano provvedimenti utili, a volte sperimentando soluzioni innovative, poi si applicavano sanzioni a chi avesse trascurato i propri doveri.
Come dimenticare che Venezia fu forse la prima a garantire un avvocato gratuito ai reclusi in carcere e ai condannati a morte? Come dimenticare l’autorevolezza dei suoi giudici in tutto il mondo conosciuto, un prestigio che finì per riverberarsi persino nei drammi di Shakespeare? In questo palazzo nacque la figura del Pubblico Ministero, che prima era sconosciuta al mondo civilizzato: qui da noi si chiamavano Avogadori de Comun.
E ancora: il processo accusatorio, vanto del mondo anglosassone, da noi costituiva la regola, essendo praticato dalla Quarantia Criminal. L’Italia lo ha introdotto solo l’altro giorno: negli anni ’90 ha abbandonato il modello inquisitorio, basato sulle carte accumulate dal giudice istruttore, per passare al processo orale, in cui si costruisce la prova attraverso il dibattimento in udienza, proprio come succedeva a Venezia.
3. Sul Fornaretto e sui Piombi si sono dette cose fuori dal mondo, che non corrispondono alla verità storica, ma che si sono innestate nella memoria collettiva.
Un cosiddetto storico francese di fine ‘700, che va ancora per la maggiore nell’università italiana, di nome Darù, lavorava per Napoleone e scrisse una storia di Venezia per diffamarla. Così definì i Piombi fournaises ardentes , cioè fornaci ardenti, mentre queste celle erano collocate nel sottotetto di palazzo ducale dove si stava discretamente bene, poi scrisse che i Pozzi erano gallerie sotterranee: naturalmente non aveva mai visto ciò che descriveva, dimenticando che nel sottosuolo di Venezia c’è… l’acqua!
Quanto al cosiddetto Fornaretto, la leggenda ebbe una fortuna incredibile, dal dopoguerra in poi è divenuta l’unica nozione di giustizia veneta assimilata a livello di massa. La vicenda fu montata nell’Ottocento, nel tempo in cui, per esempio, la letteratura romantica ribattezzò il ponte delle prigioni in “Ponte dei Sospiri” (altro nome inventato per i turisti). Il Fornaretto, dicevo, sarebbe stato un popolano messo a morte ingiustamente, accusato di un omicidio altrimenti commesso da un nobile. Un aneddoto partorito apposta per colpire la fantasia popolare: dai documenti originali non risulta tutto questo: solo in alcuni registri di condannati a morte ci è rimasto il nome di un tale Pietro Faciòl, ma in realtà non conosciamo l’identità di questo tizio. Il fatto è che del processo narrato dalla leggenda non si trova alcuna traccia in nessun documento di inizio ‘500, quando si sarebbe consumato l’omicidio in questione.
Nel 1507, anno trattato nei minuziosi Diari di Marin Sanudo, non si fa cenno a nessun giovane garzone impiccato per errore giudiziario. Eppure, sull’onda del suggestivo Fornaretto, è fiorita una prolifica divulgazione: dall’omonimo dramma teatrale messo in scena da Francesco Dall’Ongaro nel 1846, al famoso giallo Il Fornaretto di Venezia di Franco Zagato edito dalla Newton Compton nel 1985, passando addirittura per il cinema, con l’omonimo film del 1963 diretto dal regista Duccio Tessari.
4. Sorge spontanea la domanda: possibile che nessuno senta puzza di bruciato?
No, nessuno si rende conto del bluff di una storia manipolata, peraltro attraverso avvenimenti di una gravità enorme. La demolizione della nostra storia nazionale va fatta risalire al 1767, quando fu pubblicata in italiano la traduzione della Historie de la république de Venise depuis sa fondation jusqu’à présent par monsieur l’abbé Laugier del 1759.
Colmo della beffa, si trattava di un clamoroso plagio, rilevato già dai contemporanei, dei Principj di Storia Civile di Vettor Sandi. Laugier scopiazzò l’opera dell’insigne patrizio veneto senza citarlo e v’introdusse l’impostazione ideologica illuminista. Fu egli per primo ad affermare la pretesa soggezione veneziana a Bisanzio durante l’Alto Medioevo, sicché oggi tutti i professori italiani imitano pedissequamente la sua impostazione. Tali falsità preconcette irritarono a tal punto Sandi da indurlo a pubblicare nel 1769 un testo anonimo per confutare quell’insano, reo, o leggiero francese, come lui chiamava Laugier.
Sandi scrisse così gli Estratti della storia veneziana del signor abbate Laugier ed osservazioni sopra gli stessi, ma gli Inquisitori di Stato invece di dargli man forte fecero togliere dalla circolazione le copie del saggio, per paura di complicazioni diplomatiche. Ma consoliamoci: le falsificazioni dei francesi Laugier e Darù si sarebbero trasformate in un danno irreversibile se non si fosse riusciti ad ottenere la restituzione dell’Archivio di Stato sottratto da Napoleone e portato a Parigi, durante l’invasione della Repubblica nel 1797. Una volta fatti sparire i documenti originali, sarebbe divenuto facile a qualunque storico prezzolato far passare ogni fandonia come verità.
5. A palazzo ducale si conserva ancora una lapide marmorea con un’iscrizione, che spiega come i giudici debbano pervenire alla sentenza: che cosa dice di preciso?
«Per prima cosa indagate sempre con diligenza, per sentenziare con giustizia e carità, e non condannate nessuno senza prima aver tenuto un equo e veritiero giudizio; non giudicherete sopra alcuna cosa in base a sospetti arbitrari; al contrario raccogliete prima le prove e solo dopo proferite sentenza, ispirata a carità: ciò che non volete che sia fatto a voi, rifiutate di fare agli altri».
Questo testo campeggia ancor oggi in sala dell’Avogaria a Palazzo Ducale, scritto in latino su una lapide marmorea. Erano norme giuridiche di metodo rivolte ai giudici per spiegare come procedere contro i criminali. Contengono i due principî cardine del diritto veneto: giustizia e carità.
Giustizia vuol dire che lo Stato DEVE (cioè ha il dovere di) dare a ciascuno il suo, rimediando ai torti e punendo i colpevoli senza esitazione; ma questa alta funzione dev’essere contemperata dall’altro principio, cioè la carità, che viene ripetuto per ben due volte.
“Carità” qui è intesa in senso cristiano e tale concetto è spiegato subito con una citazione diretta del Vangelo: “non fare agli altri ciò che tu non vuoi sia fatto a te”.
Insomma, il principio di Carità modera e guida il senso di giustizia, impedendo che la repressione penale diventi una macchina cieca e disumana, come accade quando i giudici dimenticano i fini ultimi per i quali stanno operando; essi - sembra insegnare la lapide - sono uomini che devono giudicare altri uomini, perciò devono usare lo stesso metro che userebbero per giudicare se stessi.
Enorme lo spessore di questi precetti morali, che fanno esplicito rinvio alle Sacre Scritture: in definitiva prevale l’idea che la Veneta Serenissima Repubblica si ergeva su fondamenti di natura spirituale, quando invece la Repubblica Italiana è figlia del materialismo: l’articolo n. 1 della Costituzione del 1948 recita infatti che “l’Italia è fondata sul lavoro”, dunque su un elemento materiale.
Edoardo Rubini
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