1915, LE IMMANI COLPE DEI SAVOIA: IL GOLPE A FAVORE DELLA GUERRA
di Moreno Catto e Edoardo Rubini
Con un astuto stratagemma, il 13 maggio 1915 il capo del Governo, Salandra, si fa beffe dell’ostilità parlamentare dimettendosi di fronte alle camere. Il Re a questo punto dovrebbe prendere atto che la maggioranza è per la neutralità: per sondarne la disponibilità ad un incarico come Primo Ministro, infatti, convoca Giolitti, al quale nel frattempo era giunta voce del Patto segreto di Londra. Giolitti subito propone di liberare l'Italia dagli impegni con gli anglo-francesi; vuol far votare al Parlamento la ripresa delle trattative con l'Austria, che stava avanzando nuove proposte, ma fin dal giorno del suo arrivo scoppiano ovunque le violenze degli interventisti, che indignano parecchi tra i parlamentari.
La sera stessa, circa 320 onorevoli e 100 senatori sottolineano pubblicamente la loro adesione alla linea giolittiana neutralista, lasciando a casa di Giolitti il proprio biglietto da visita. Vedendo il re irremovibile (la nomina del governo dipendeva da lui) e i suoi accoliti che agitavano la piazza, Giolitti capisce che non contavano nulla i vantaggi territoriali che si potevano ottenere senza sparare un colpo, perché nel gioco internazionale l’Italia si era ritagliata il ruolo di pedina manovrata da altre forze.
Giolitti dignitosamente rifiuta l’incarico per non rendersi complice di un atto politico abnorme; a quel punto, il sovrano reincarica proprio Salandra: è 16 maggio. Protestare contro l’intervento significa rischiare la vita: a Palermo i nazionalisti aggrediscono i manifestanti contro l’entrata in guerra, la forza pubblica spara e c’è un morto, mentre a Torino la Camera del Lavoro proclama lo sciopero generale. Risultato: tumulti, barricate e scontri, con un morto e parecchi feriti.
Il Re d’Italia ignora la decisa contrarietà popolare e l’opposizione del parlamento; respinge le dimissioni di Salandra e conferisce poteri speciali al Governo. Il parlamento è esautorato quel tanto che basta per scavalcarlo: l’Italia può finalmente entrare in guerra. Il governo austriaco visse momenti di panico nell’apprendere che l’Italia abbandonava la Triplice Alleanza ed il 17 maggio 1915 Vienna promise a Roma non solo il Trentino, ma fece anche altre concessioni, con Trieste città libera.
Era troppo tardi, a nulla valse la proposta austriaca contro i disegni del grande architetto internazionale: il giorno 20 il Parlamento fu riaperto in un clima d’assedio, dato che sin dai giorni precedenti il governo aveva dato libero sfogo alle teste calde (Giacomo Matteotti denunciò che per ingrossare le manifestazioni interventiste furono mandati in strada persino i dipendenti ministeriali), fino all’episodio del 14 maggio 1915, quando la colonna dei dimostranti, dopo aver percorso le vie centrali di Roma, fu lasciata marciare su Montecitorio, dove sotto il naso dei carabinieri mandò in frantumi con lanci di pietre le vetrate dei portoni facendo irruzione alla Camera, per lanciare un segnale ai deputati che volevano la pace.
La Camera era riunita il 20 maggio 1915: il discorso di Salandra faceva appello all’unità nazionale, propinando quella truffaldina ricostruzione dei fatti in seguito abbracciata dalla storia ufficiale. Ottenne così la ratifica della Camera sul suo operato: il Re conferiva al Governo poteri straordinari in caso di guerra, si esautorava il Parlamento per tutto il 1915 e si autorizzava il Governo ad emanare decreti senza bisogno di convertirli in legge.
Qualche studioso ha analizzato la decisione a favore dell’intervento e gli avvenimenti dal 13 al 20 maggio 1915 come un golpe ordito dalla Monarchia: così Luigi Salvatorelli nel suo saggio del 1950, "Tre colpi di stato". Il 23 Maggio 1915, all’ambasciatore italiano a Vienna è dato mandato di informare che da quel momento i due Stati si trovano in “istato di guerra”
In Italia la notizia viene salutata con esplosioni di entusiasmo da parte degli interventisti. Sin dal gennaio 1915 Benito Mussolini, espulso dal partito socialista, aveva chiamato a raccolta un’organizzazione di nazionalisti bellicosi, noti come Fasci di azione rivoluzionaria, potendo contare su un suo giornale, Il Popolo d’Italia, finanziato con fondi occulti dal governo francese per fare propaganda interventista. I suoi articoli incitavano i lettori del quotidiano a rivoltarsi contro il governo, invitando letteralmente a sparare alla schiena dei parlamentari pacifisti.
Si sprecano minacce ed intimidazioni contro chiunque, cattolico o socialista, cerchi di opporsi. Questo clima proseguiva dal tempo della riunificazione politica italiana, in una situazione di feroce repressione interna, contestuale alle continue guerre d’aggressione esterne, combattute nell’esperienza coloniale contro popoli semi-indifesi.
Impressionano i dati del bilancio del Regno savoiardo all’alba dell’intervento bellico: l’esercizio annuale contava un miliardo e 671 milioni di lire, di cui un terzo è dilapidato in spese per armamenti, mentre circa 700 milioni di lire sono impiegati per pagare alle banche gli interessi sul debito pubblico; di tutto il pubblico erario, ai servizi per i cittadini sono riservati appena 400 milioni di lire (circa il 20%).
L’Italia era immersa nell’acre sapore del sogno imperiale, che si traduceva in uno stato di belligeranza pressoché permanente, con il popolo ridotto a carne da cannone. A mattanza conclusa, nel centro delle cittadine di tutto il Veneto, furono subito piazzati monumenti dedicati al milite italiano, dove spesso sta scritto “caduti per la libertà”: anziché ricordare con pietà cristiana le vittime, si è inteso edificare un culto laico, destinato a sancire per l’eternità un patto di sangue nazionalista.
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