SULLE TRACCE DEL TURCO A PARENZO


A Parenzo, nel triangolo magico dell'Istria, per scoprire quanto ancora resista la memoria di Lepanto fino quassù, sul fondo dell'Adriatico
PAOLO RUMIZ ci incanta di nuovo...

Parenzo, sera viola, un'osteria della città vecchia, squadriglie di rondini attorno alla basilica bizantina, un'aria d'Oriente che fa a pugni con le divise troppo americane dei poliziotti croati. Annotiamo sulla nostra mappa quanto abbia viaggiato la leggenda del turco, anche qui, in fondo all'Adriatico. Capodistria, una colonna a memoria di Lepanto e del contributo istriano alla battaglia. San Donà di Piave, festa con processione il 7 ottobre in nome della Madonna del Rosario. Casarsa, Pasolini che scrive i "Turcs tal Friul", un evento del 1499, con quell'urlo terribile nella pianura: "A è la muart ch'a ni speta cà intor!", è la morte che ci aspetta qua intorno. "Dut cà intor sarà distrùt, sparit, dismentiàt. E tu, Verzin beada. Tu, ch'i ti vedis pietàt di nu, ch'i ti fermis il Turc".

La locanda si anima di indigeni, un avventore narra che per ammazzare i mariti ubriaconi le donne istriane mettevano nella minestra oleandro decotto, un po' al giorno. "In pochi mesi - dice - morte sicura, senza traccia". Il trucco è vecchio di secoli e, a suo dire, funziona ancora. Ante, un pescatore che vanta di far colazione con un litro di vino al posto del caffé, ammira molto la Serenissima e spiega perché. Quando i Veneziani importarono da Oriente la mode della sodomia, il Doge, per battere il flagello, emanò un editto che autorizzò le prostitute a mostrare più generosamente le tette. "Grande Venezia - si esalta - puttane per moralizzare la Repubblica".

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Dopo il "Maìstro" arriva il "Borìn", cioè la bora fine, leggera come uno zefiro. Escono le stelle. Chiediamo se anche qui esistono memorie ottomane. Certo che sì, dicono, e subito ci scodellano la storia che cerchiamo davanti a un fiasco di malvasia. E' la leggenda di due giovani sloveni che stanno per sposarsi, sono già davanti al prete, quand'ecco arrivare l'orda della mezzaluna che mette il villaggio a ferro e a fuoco. La bella scappa, nasconde l'abito bianco sotto un pavimento, ma viene scoperta, rapita e portata a Istanbul dagli infedeli.

Passano vent'anni, e una gran dama arriva in paese in carrozza, scortata da scudieri. C'è un matrimonio in corso, sull'altare c'è il mancato sposo di vent'anni prima, che s'è stancato di aspettare. La dama entra in chiesa e gela gli astanti. Urla: "no, quella da sposare sono io. Fui rapita, ma ho fatto fortuna, e ora eccomi qui". Non ti riconosco, dice lui, offrimi una prova.

Allora lei schioda il pavimento, estrae davanti a tutti l'abito da sposa. Ma lui non può spezzare la nuova promessa, il matrimonio interrotto ricomincia. La dama impazzisce, sparisce nei boschi con l'abito di vent'anni prima. Nei villaggi dicono di vedere ancora il suo bianco vestito nelle notti di vento.
Rovigno

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All'alba, verso il largo, passa una grande nave-traghetto. Risale verso Trieste, a poppa ha la bandiera rossa con la mezzaluna. Turca. E' il nostro primo incontro con gli eredi della marineria ottomana. Conosco quelle navi, portano le carovane di oggi: i camion. E fanno esattamente quello che fece Venezia: collegano l'Oriente all'Europa. Ci ho viaggiato, tempo fa. Il comandante parlava con disprezzo di arabi e americani. Ma chiamava l'Adriatico "Venedik Koerfezi", Golfo di Venezia, a tal punto ammirava la Serenissima.

Parenzo-Porec

Il cuoco di bordo, incallito tombeur, era soprannominato Casanova. Era stato pellegrino alla Mecca per espiare peccati da angiporto, ma la voglia gli era rimasta, perché sfornava dolci squisiti che battezzava "Ombelichi delle signore".
I camionisti fumavano, come turchi appunto. Giocavano partite interminabili a backgammon. Parlavano sempre, dovevano ricuperare settimane di solitudine al volante. La sera, a Trieste, in attesa dell'imbarco, formavano un gran cerchio con i loro mezzi, ricavandone una piazzetta con vista sul golfo, un luogo loro, dove cucinare, pescare, aprire le sdraio per una fumata davanti alle luci della città. Quando c'era festa agli yacht club di fronte, oltre il mandracchio, commentavano deliziati i decolletée delle signore. Cammellieri perfetti. Il servizio per camionisti era stato creato con la guerra dei Balcani. Le strade di terra erano troppo insicure, bisognava by-passare la Jugoslavia in fiamme. Così si andò per mare. Poi, si scoprì che la via d'acqua conveniva anche in tempo di pace. Costava meno. Bisanzio aveva capito il mare di Venezia meglio di Roma.
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Bora magnifica, si naviga per Pola piegati a 45 gradi, velocità sui dieci nodi. Il mare si spalanca come una liberazione, è spazzato da leggere creste bianche. Le raffiche non arrivano orizzontalmente ma cadono dall'alto, generano sull'acqua come una piccola esplosione. La bora è un vento pesante, precipita dalle montagne. Ha effetti immediati sulla psiche: esalta o innervosisce, niente vie di mezzo.

Il nome della bora è più antico di Omero. Viene dal mesopotamico Buriash, il dio delle tempeste dei montanari Cassiti, che scesero su Eufrate e Tigri per conquistare Babilonia. La parola "Borea", per dire Nord, viene da lì. Il veneto "Buriana", tempesta, pure. Guai se non ci fosse. Rivolta il mare come le zolle di un campo. Senza di lei il Mediterraneo, che è chiuso da tutte le parti, sarebbe putrefatto, senza ossigeno.
Lo stesso fanno il Mistral nel Tirreno e il Meltemi nell'Egeo. Si infilano nei varchi tra le montagne, arano il mare e tutto si rigenera.

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